Shelby Oaks: Un film in cui una sorella che cerca la sorella perde l’orientamento narrativo.
🎥 Trama con incubi, VHS e scelte cretine
In Shelby Oaks di Chris Stuckmann, ex critico YouTube in crisi d’identità, seguiamo Mia Brennan (Camille Sullivan) che dopo diciassette anni è ancora ossessionata dalla scomparsa della sorella Riley (Sarah Durn), youtuber del gruppo “Paranormal Paranoids” sparita mentre giocava a Ghostbusters nella città fantasma di Shelby Oaks, Ohio. Il film parte come mockumentary true crime in stile “Netflix del brivido povero”, tra interviste, filmati recuperati e la classica VHS maledetta in mini DV che nessuno sano di mente inserirebbe nel lettore se non fosse protagonista di un horror soprannaturale.
Da bravo personaggio di horror che ha visto troppi film senza imparare nulla, Mia decide di fare tutte le mosse sbagliate del manuale: nasconde indizi alla polizia, segue da sola piste demoniache, si infila di notte in prigioni e parchi giochi abbandonati, e continua a fidarsi delle persone sbagliate come se fosse intrappolata in un reboot segreto di The Blair Witch Project. Nel frattempo, il matrimonio con Robert (Brendan Sexton III) implode, spuntano cani dagli occhi luminosi e demoni molto interessati alla fertilità famigliare, in una versione discount e crowdfundata delle paranoie sataniche di Rosemary’s Baby.

«Perché andare dritti verso la porta chiusa quando puoi curiosare dalla finestra? La logica horror è un concetto astratto, come il finale di questo film.»
🍿 Cosa funziona in Shelby Oaks: “L’occhio del critico non è cieco”
L’esordio di Chris Stuckmann non sa sempre cosa vuole raccontare, ma sa benissimo come mostrarlo: la confezione tecnica è sorprendentemente solida per un film nato da Kickstarter e da un fandom che ha sganciato oltre 1,3 milioni di dollari per vedere il proprio youtuber preferito passare dietro la macchina da presa.
La parte mockumentary e found footage iniziale è il pezzo forte: l’uso delle clip dei “Paranormal Paranoids”, le interviste stile true crime e il montaggio “da inchiesta ossessiva” creano un’atmosfera che ricorda certe indagini malate da docu-serie true crime, con quel gusto sporco e analogico che sembra uscito da forum creepypasta dei primi anni Duemila.
La regia gioca bene con luci, ombre e location: prigione abbandonata, parco giochi cadaverico e fattoria da incubo rendono l’Ohio più inquietante di quanto meritasse, con un uso intelligente degli spazi e della profondità di campo che mette ansia anche quando non succede nulla. Il ritmo tiene botta per buona parte del film: Stuckmann alterna indagine, flashback, sogni e visioni con un montaggio che non si adagia, e quando la tensione cala tira fuori una trovata visiva o un jump scare ben piazzato, senza scadere nel circo continuo da luna park horror anni Novanta.

«Oh guarda, una cassetta Mini-DV incastrata tra le mani del cadavere. Sarà sicuramente la chiave per risolvere tutti i problemi di trama!»
🎬 Perché non guardare Shelby Oaks: “Signori, il twist è rotto”
Poi arriva la sceneggiatura, si guarda allo specchio, si ricorda di essere stata scritta da un critico convinto di aver capito come si aggiustano i film degli altri, e decide di franare con la grazia di un finale di M. Night Shyamalan dei tempi peggiori, quando il maestro di The Sixth Sense e Signs giocava a “indovina il colpo di scena” con se stesso.
L’indagine di Mia, pur sorretta dall’ottima Camille Sullivan, è spesso una catena di decisioni illogiche, scelte forzate e dialoghi che gridano “dovevamo arrivare lì, non sapevamo come, quindi ci siamo arrivati lo stesso”: ogni volta che serve un passo avanti nella trama spunta un indizio perfettamente conveniente o un personaggio che si presenta alla porta con la precisione di un rider dell’orrore.
Il problema vero è il terzo atto: il film parte come puzzle paranoico, flirta con l’ambiguità psicologica e poi butta sul tavolo rituali satanici, demone Tarion, incubi infantili, stupri rituali, gravidanza, hellhound addestrati e destino cosmico delle due sorelle, nel tentativo disperato di dare senso retroattivo a tutto. Il twist finale, invece di funzionare da chiave interpretativa alla The Others, assomiglia più a un gigantesco “fidatevi, era tutto pianificato” che puzza di paraculata correttiva post produzione, complici anche i reshoot e le modifiche al finale voluti dopo l’acquisizione da parte di Neon. È quel tipo di epilogo che sembra urlare: “Tranquilli, se non vi torna nulla è perché non avete colto la profondità”, quando in realtà non torna nulla perché non è stato pensato fino in fondo.

«Non c’è niente di meglio che infilarsi in un parco giochi abbandonato di notte. Sacro consiglio per chi ha sete di ~rotture di palle~ autentiche esperienze paranormali!»
📼 Box: Mockumentary, ovvero quando il falso documentario ti frega meglio del mostro
Il mockumentary, reso celebre da titoli come This Is Spinal Tap e poi applicato all’horror in salsa found footage da film come REC e dalla leggenda di The Blair Witch Project, è un finto documentario che racconta eventi totalmente inventati come se fossero reali, usando interviste, camera a mano e linguaggio da reportage per ingannare lo spettatore e fargli abbassare le difese.
A differenza del semplice found footage, che di solito è solo “abbiamo trovato questa cassetta, guardiamo com’è andata male”, il mockumentary mescola spesso materiali diversi, talking heads, ricostruzioni e apparente analisi dei fatti, creando un effetto “true crime fasullo” che rende il soprannaturale più disturbante proprio perché incastrato in un formato che associamo alla realtà.
In Shelby Oaks questa idea funziona benissimo nella prima parte, dove la storia dei “Paranormal Paranoids” sembra davvero un vecchio caso irrisolto da forum di appassionati, ma perde forza quando il film abbandona il linguaggio documentaristico per una narrazione più classica che non sfrutta fino in fondo il potenziale del formato.
«Il twist finale? Si chiama “Ora ci penso io” ed è la soluzione preferita da chi scrive sceneggiature a ridosso della consegna.»
🎭 Conclusioni: “Chris, da qui in poi niente più compiti a casa da Shyamalan, grazie”
Come opera prima, Shelby Oaks è il tipico film che dimostra quanto un ex critico come Chris Stuckmann conosca benissimo i giocattoli del genere, ma non sempre sappia quando è il caso di posarli e lasciare respirare la storia, un po’ come se volesse fare The Blair Witch Project, Rosemary’s Baby e un paio di creepypasta video tutto nello stesso film. Il risultato è un ibrido affascinante a tratti, ben diretto, ben fotografato, sorretto da una protagonista intensa, ma incastrato in una scrittura che confonde “complesso” con “ingolfato” e “ambiguo” con “confuso”, con un finale che prova a rimettere in riga tutte le stranezze precedenti ma finisce solo per evidenziarle.
Se si entra in sala pronti a farsi fregare dall’atmosfera, dall’impianto mockumentary e dal lavoro tecnico, Shelby Oaks funziona come biglietto da visita per un regista che, limando l’ego da “ora vi faccio vedere io come si scrive un horror” e accettando che certe magie le faceva meglio M. Night Shyamalan quando ancora ci credevamo, potrebbe davvero regalarci qualcosa di grande. Per ora resta un film interessante da vedere per capire cosa succede quando un recensore salta il banco e prova a diventare autore, scoprendo sulla propria pelle che criticare i finali degli altri è molto più facile che scriverne uno che non sembri una paraculata demoniaca in extremis.
Al cinema dal 19 Novembre con Midnight Factory via Plaion Pictures.
Regia: Chris Stuckmann Con: Camille Sullivan, Brendan Sexton III, Keith David, Sarah Durn, Michael Beach, Derek Mears, Charlie Talbert, Robin Bartlett Anno: 2025 Durata: 91 min. Paese: Stati Uniti Distribuzione: Midnight Factory
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