La Grazia: La mirabile, grande bellezza degli umanissimi, conflittuali dilemmi etici, di un indimenticabile amore perpetuo, candidamente marmoreo e del labile tempo inesorabile da debellare con saggia leggerezza languida.
Direttamente dalla fastosa 82.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, recensiamo il suo film inaugurativo, ovvero l’11° opus di Paolo Sorrentino (This Must be the Place, È stata la mano di Dio), intitolato La Grazia.
Che ha, scusateci se siamo pleonastici, grandiosamente aperto la kermesse suddetta, aprendo le danze del Concorso festivaliero. Pellicola della durata corposa eppur mai noiosa di 133 minuti appassionanti, sovente commoventi, a tratti magniloquenti e intrisi di delicata poesia intonata a una levità cineastica d’un Sorrentino (ivi anche produttore principale assieme ad Annamaria Morelli e unico autore della sceneggiatura originale) in stato, giustappunto, di grazia, è quanto mai opportuno giocar ripetitivamente di parole con sana leggiadria, speriamo non morbosa e futile.
Sebbene, chiariamo fin dapprincipio, La Grazia, pur essendoci piaciuto notevolmente, non è esente da alcuni difetti vistosi ed è inficiato da un paio di pacchiani, ingiustificati topos tipicamente sorrentiniani, da concepir in accezione negativa, che poi enunceremo severamente senza fronzoli.

Trama, sintetizzatavi in modo veramente conciso e scarno per non sciuparvene le sorprese e guastarvene la soffice atmosfera soave:
L’immaginario Presidente della Repubblica di nome Mariano De Santis (Toni Servillo, monumentale e nella sua indiscutibilmente miglior interpretazione da anni), sta vivendo sia intensamente che assai pensierosamente, il famoso semestre bianco prima della scadenza del suo mandato, sin ad ora onorato con ferrea dedizione e forse fin troppo rigorosità priva di sbavature, soprattutto personalmente caratteriale, che l’ha “imbalsamato” a livello emozionale, paradossalmente a causa del suo esser fin troppo severo, maniacalmente intransigente nei riguardi di sé stesso. De Santis, infatti, ex magistrato e giurista integerrimo, non soltanto per ciò che concerne le sue valutazioni politiche, è inflessibile, bensì è assolutamente spietato e impietoso, in primis, verso la sua anima e il suo raggelatosi, raffrenato e inibito cuore innatamente però dannatamente romantico e proteso giudiziosamente verso un idealismo speranzoso e arioso. Utopistico o semplicemente allineato a duri ma sacrosanti principi di moralità ineludibili? È inoltre perennemente addolorato da una interminabile, silentemente lacrimosa elaborazione dell’insostenibile lutto inerente alla morte dell’amatissima moglie Aurora. Che segretamente, peraltro, tanti anni or sono, lo tradì. Con chi? Domanda perturbante. Col suo miglior amico e al contempo eterno rivale, forse suo ambizioso successore, Ugo Romani (Massimo Venturiello)? Oppure con un mister X a De Santis ignoto? Prima della fine del suo operato, De Santis, la cui primaria e più fidata consigliera fu ed è, insindacabilmente, nientepopodimeno che la sua affettuosa figlia Dorotea (Anna Ferzetti al suo primo e stupefacente ruolo importante e drammatico), deve per di più, volente o nolente, pronunciarsi se conceder la grazia o meno a un uomo, Cristiano Arpa (Vasco Mirandola), ex stimato e discreto docente di Storia, e a una giovane donna, Isa Rocca (un’ipnotica Linda Messerklinger), rispettivamente accusati e imprigionati per aver barbaramente ucciso i propri compagni. In entrambi i casi, De Santis deve considerar con oculatezza e irreversibile giustezza inalienabile se, all’epoca degli omicidi commessi, esistettero per entrambi delle attenuanti plausibili atte a giustificarne, ça va sans dire, le grazie possibilmente da elargir loro al fine che essi stessi, sollevati dalle loro gravose colpe, comunque sia indelebili, possano però intimamente perdonarsi e finalmente librar nel cielo azzurro della vita risorta. Infine, che cosa promulgherà in merito alla nuova legge, da varare e da lui firmare in calce, sull’eutanasia? Spesso, Mariano è afflitto da un’invitta solitudine malinconica, trascorre le sue impegnative ma monotone, grigie giornate tra le asfittiche e asettiche aule del Quirinale. Procedendo cupamente fra bui dì poco incantevoli ma incatena(n)ti alla tristizia esistenziale più pia ma pigra e insonne, turbolente notti pallide che vengono solamente flebilmente e a sprazzi vivificate dalla tenera Dorotea e un po’ ravvivate dalla “folcloristica”, spiritosa amica Coco Valori (Milvia Marigliano, i cui exploit umoristici son impagabili), dall’imbarazzante ma tutto sommato e innocuo Lanfranco Mare (Giuseppe Gaiani, anch’egli eccezionale) e dall’imprescindibile, confidente corazziere tuttofare, il colonnello Massimo Labaro (un altrettanto perfetto e inappuntabile Orlando Cinque).

Cosa funziona ne La Grazia
La grazia, coi suoi indubbi vezzi immancabili, financo irritanti, quali ad esempio il grottesco arrivo, sotto una pioggia insistita e battente, del premier portoghese (ridicola e superflua compilation filmica, compiaciuta e girata con montaggio sincopato da patinato spot pubblicitario dei più modaioli), l’incursione ruffiana di Gué Pequeno, ammiccante fastidiosamente, e le insulse sequenze del cavallo morente e agonizzante, a loro volta ripiene di ombelicali simbolismi incomprensibili per chiunque, forse addirittura e perfino per il regista stesso, dunque volutamente ermetico per glorificarsi vanamente, crogiolandosene pateticamente, attraverso un plateale e “masturbatorio” nonsense pacchiano, è, ciononostante, il miglior Sorrentino dell’ultima decade. In quanto vibrante, melodicamente e bellamente impalpabile, elegantemente asciutto e aggraziato, recitato divinamente da tutti i suoi interpreti senz’eccezione alcuna. Con un Servillo (La stranezza) svettante e, ribadiamo fortemente, capace d’infondere mille e più sottilissime sfumature cangianti al suo complesso personaggio dolente e dolorosamente dubbioso, soprannominato “cemento armato” ma che, a dispetto della ridicola “nomea” affibbiatagli superficialmente, è scosso interiormente e in maniera sempre più incontenibilmente irrequieta, pulsante, da una umanissima smania di libertà vitalistica e ricerca d’armonia omeostatica.

Perché non guardare La Grazia
Pregevole, fotografato egregiamente da Daria D’Antonio che ha optato per toni lividi e allo stesso tempo vividamente abbacinanti e mutevoli, oscillanti tra magnetiche fluorescenze delle più variegate, intelligentemente intervallate con altre talmente sobrie da parer raffinatamente “televisive”, stavolta da intendersi nobilmente, La grazia pecca di talune barocche ridondanze figurative e perde talvolta, sgretolandosi comunque mai, sia chiaro alla pari delle iridi linde della stupenda Messerklinger, in compattezza e potenza espressive. Ma, nella sua pindarica, carezzevole interezza dolce e morbida, luminosamente avvolgente, risulta organicamente equilibrato e squisitamente sensibile, a momenti persino memorabile. Certamente toccante e graniticamente fulgido.
È un film “senile”, incentrato su un uomo investito di ardue responsabilità difficilissime da sostenere, un uomo che traballa, sta per collassare psicologicamente e trova sempre più complicato gestire e separare il pubblico dal privato, che è, sotto ogni punto di vista, rigido, apparentemente gelido, compassato e fin troppo educato, eppur vuol sciogliersi, piangere, commuoversi ed emozionarsi, lasciarsi piacevolmente scalfire senza più esser ferito, tantomeno lacerarsi. Da tutta una vita tenne tutto dentro, soffrendo e gioendo solamente nelle carceri agoniche e melanconiche della sua mente, or Mariano invece desidera con parsimonia, graziosamente e armonicamente, lasciarsi andare al lievissimo flusso catartico del suo cuore dapprima ibernatosi, quindi pian piano più piacente e veritiero specialmente per sé stesso.
Presentato a Venezia 82 sarà al cinema dal 16 Gennaio 2026 con Piper Film.
Regia: Paolo Sorrentino Cast: Toni Servillo, Anna Ferzetti, Massimo Venturiello Anno: 2025 Durata: 131 min Paese: Italia Distribuzione (Italia): PiperFilm Anteprima mondiale: Film d’apertura all’82ª Mostra del Cinema di Venezia, 27 agosto 2025
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