Nosferatu: Recensione del film di Robert Eggers, un mortuario racconto gotico poco romantico.
Oggi recensiamo finalmente il tanto atteso, generalmente acclamato eppur a noi non molto garbato, così come seguentemente esplicheremo nella nostra disamina, Nosferatu, 4° opus di Robert Eggers.
Il quale, dopo il suo clamoroso esordio The Witch, tenuto molto in auge e oramai reputato, in modo totemico, intoccabile pressoché da chiunque, da noi invece, al contrario, considerato indubbiamente sopravvalutato (sempre da intender ciò personalmente, per di più e col senno di poi, negativamente storicizzato già ad oggi nel rivederlo e non cambiarne mai più opinione soltanto a qualche anno di distanza dalla sua uscita), dopo il manieristico ma interessante, ermetico The Lighthouse e il roboante, colto, citazionistico ma grandemente irrisolto e fiacco The Northman, stavolta si cimenta con la sua coraggiosa, eppur a nostro avviso, totalmente squinternata e assai deludente versione del celeberrimo Dracula di Bram Stoker, sceneggiandolo da sé e agendone in veste di co-produttore principale per conto della Focus & Universal Pictures.
Il Nosferatu eggersiano, quindi, attingendo, per quanto concerne il soggetto originario, innanzitutto da Nosferatu, eine Symphonie des Grauens firmato Friedrich Wilhelm Murnau, a sua volta rifatto nel ‘79 da un ispirato e sfavillante Werner Herzog col magnificente Nosferatu: Phantom der Nacht, avente per protagonisti un superbo Klaus Kinski e una diafana, spettrale Isabelle Adjani, entrambi eternali, tenta di rinverdire i fasti leggendari del principe Vlad, aggiornandoli all’estetica e allo sguardo cineastico d’un autore ivi esangue, metaforicamente parlando, stilisticamente e nella propria poetica molto discutibile, sterile alla pari del suo asmatico vampiro inerte.
Il quale, più che redivivo non morto passionalmente sanguinale, risulta scialbo ed emaciato nella sua anima non pulsante di furore e totalmente anemica in senso figurato e a livello emozionale. Ché, come il film di Eggers, languendo evanescente, ovverosia intangibile in quanto a consistenza di spessore mitologico, psicologico e financo sociologico, alla stessa velocità con cui, nelle sue rare apparizioni, ai nostri occhi fugacemente compare, dalla nostra memoria, a visione ultimata, in fretta svanisce e par che giaccia nella landa solitaria d’un Cinema, permetteteci di dire, neghittoso e tristanzuolo, privo di sbocchi che respirino di vivida autenticità seducente e ariosa.
Trama, leggermente riassuntavi per evitarvi spoiler inadeguati che sciuperebbero ogni vostra (in)aspettata sorpresa che sarebbe inficiatane, sebbene, per dovere d’obiettività e totale franchezza, Nosferatu è decisamente poco sbalorditivo e carente di colpi di scena ficcanti:
Dopo un poetico, scarnissimo incipit (questo sì, però perturbante e angoscioso ma così poco duraturo e visivamente fuggevole da far sì che s’estingua, ahinoi, immantinente ogni lirismo bellamente maledettista e di natura onirica), intriso d’atmosfere gotiche, orrifiche e cupamente esoteriche in cui, tenebrosamente, siam subito immersi all’interno d’un appartamento filmato quasi in blanc et noir ceruleo, per cui assistiamo ai deliri, all’apparenza schizofrenici, d’una eterea fanciulla di nome Ellen (Lily-Rose Depp) la quale, nell’asfittica solitudine della sua villa, evoca sensualmente un maligno spirito ancestrale appartenente nientepopodimeno che al principe delle tenebre che dà il titolo al film, con un repentino e alquanto ingiustificato salto temporale balzano, veniamo presto e cronologicamente catapultati dieci anni dopo, ovvero nel 1838 nella tedesca cittadina di Wisborg.
Ne visualizziamo Ellen e suo marito Thomas Hutter (Nicholas Hoult, Giurato numero due, Reinfield), agente immobiliare appena incaricato dal suo datore di lavoro, il sinistro signor Knock (Simon McBurney) di recarsi in Transilvania sui monti Carpazi per suo conto in direzione della tetra magione in cui risiede il suddetto conte (perdonate il voluto gioco di parole) Orlok (Bill Skarsgård, Le strade del male).
Quest’ultimo, ieratico e dinastico erede nobiliare d’un antico, sacrale ordine principesco-regale quasi “sacerdotale”, sperduto abitante eremitico in un medioevalistico castello lontano dalla civiltà, solamente prossimo a zingaresche tribù di gitani superstiziosi, dovrà firmare un notarile documento riguardante l’acquisto d’una ricca dimora attualmente di proprietà di Knock stesso e apporne il sigillo tombale. Affinché, giustappunto, tal accordo possa essere legalmente stipulato, sarà necessario per Hutter intraprendere un periglioso e temerario viaggio alla volta di Orlok per entrarne in contatto e rettificar il tutto in forma contrattuale.

Giunto però a destinazione, Hutter, così come profetizzato dalla sua sposa Ellen, via via sempre più terrorizzato, prenderà coscienza di aver incontrato un lugubre monstre dai nefasti poteri paranormali. Riuscirà miracolosamente a sfuggirne e ritornare, seppur difficoltosamente, dalla sua amata, parimenti ad Orlok che, peregrinante attraverso il tempo in lui resuscitato, compirà per mare un isperato tragitto, approdando alla meta bramata per congiungersi carnalmente con la sua muliebre preda agognata, ovverosia la femminile metà che telepaticamente lo ridestò dall’immemorabile letargo della sua centenaria, decrepita sessualità repressa, ripudiata e obliata.
Nel frattempo, Knock impazzisce e vien internato in manicomio, le condizioni psichiche di Ellen s’aggravano in modo allarmante e allo stesso modo peggiora sensibilmente lo stato psicofisico della sua miglior amica, Anna (Emma Corrin), consorte dell’agiato Friedrich Harding (Aaron Taylor-Johnson, The Fall Guy). Al che, entra in scena il luminare, esperto d’occultismo Albin Eberhart Von Franz (Willem Dafoe), “scomunicato” dai suoi colleghi scienziati a causa delle sue idee considerate blasfeme ed eretiche.
Ellen è terribilmente posseduta, in maniera demoniaca, dall’aleggiante spettro di Orlok in lei sinuosamente e in maniera serpentesca insinuatosi viscosamente capzioso e va dunque esorcizzata o soltanto liberata dalla sua “malattia” con l’amore effusole e sessualmente iniettatole d’un amplesso tanto ripugnante quanto catarticamente succhiante il suo atavico mal di vivere incurabile, classificato superficialmente come malinconia?

Cosa funziona in Nosferatu
Scenograficamente maestoso, a tratti visionario in modo efficace, però soventemente, ripetiamo, anche fotograficamente smorto (il cinematographer è l’habitué di Eggers per antonomasia e qui per l’appunto immancabile, vale a dire, Jarin Blaschke) e pervaso perennemente da insopportabili luci e colori più cromaticamente cadaverici d’un Orlok ai confini involontari del tragicomico, in quanto afflitto da una sorta d’enfisema polmonare e/o broncopolmonite, che dir si voglia, fastidiosa, suscitante, più che raggelante paura e spaventevole inquietudine, ilarità a non finire, Nosferatu, a dispetto del suo impianto, a nostro avviso, concettualmente sbagliato e a prescindere dagli imperdonabili difetti evidenti, madornalmente macroscopici, che partono innanzitutto dalla recitazione degli attori, tutti mal diretti e scarsamente convincenti, in cui l’unico a salvarsi è il solito puntuale ed egregio Dafoe per via però solamente della sua navigata bravura professionale, possiede di contraltare dei momenti incantevoli e perfino brillantemente orrorosi nient’affatto disdicevoli, capaci di suggestioni sia liriche che glacialmente metafisiche molto fascinose.
A tratti, è perfino ipnotico. Specialmente subito dopo il lapidario prologo in cui Thomas arriva nel villaggio transilvanico popolato da rabbrividenti zingari dai raccapriccianti sorrisi ghignanti e granguignoleschi, in cui vien sacrificata un’avvenente donna misteriosa e ignuda nel buio mortifero d’una lunga notte paurosa. Nosferatu ha degli scorci visionari notevoli, le ammalianti sequenze cittadine in esterni si rivelano d’impatto ed è un dark tale permeato da un clima torbido di folclore malsano mescolato al tenero romance favolistico da fatata fiaba à la bella e la bestia.

Perché non guardare Nosferatu
Nel suo insieme, è un film parzialmente rovinoso. Anzi, meglio specifichiamo. Se non del tutto disastroso, perlomeno è spesso fallimentare. Eggers spoglia Dracula della sua intrinseca componente romantico-erotica più conturbante e della sua signorile, furente aura seduttiva, a prescindere dalla finale scena di sesso, peraltro insulsa e grottesca, al fin d’adattarlo a sua solipsistica visione, improntata solamente e stoltamente in funzione d’una calligrafica ricerca formale che, anziché far sì che il film rifulga e possa emergere il valore un’autoriale personalità registica veramente marcata, lo soffoca e colloca in un’angusta sua rilettura completamente scevra di qualsivoglia primario, sanguigno pathos mordace.
Nosferatu diviene dunque un’operazione fredda e un algido esercizio di stile, ripetiamo, più enfisematico, figurativamente parlando, del suo incorporeo vampiro patetico. Il quale, oltre a essere chiaramente repellente e giammai affascinante, non è cinematograficamente attraente (svista gravissima) e sembra un malriuscito incrocio tra l’uomo anfibio de La forma dell’acqua e un raggrinzito Ebenezer Scrooge di A Christmas Carol congelato nel suo essere sol crudele ed obsoleto, in maniera immortale e agghiacciante, soprattutto nel suo cuore di pietra immutabile.
Curiosità: Willem Dafoe, il quale, come forse ricorderete, nelle primissime fasi del progetto, fu tra i papabili attori designati per incarnare Orlok, anziché il suo “Van Helsing” (cambiato quivi nel nome e cognome, rispetto al romanzo) sui generis, interpretò Max Schreck ne L’ombra del vampiro. Il quale, nel film appena dettovi, altri non è che lo stesso Orlok rielaborato fantasiosamente di meta-cinema.
Al cinema dal 1 Gennaio con Universal Pictures.
Regia: Robert Eggers Con: Aaron Taylor-Johnson, Bill Skarsgård, Nicholas Hoult, Lily-Rose Depp, Emma Corrin, Willem Dafoe, Simon McBurney, Ralph Ineson, Stacy Thunes, Paul A. Maynard, Roman Bloodworth Anno: 2024 Durata: 132 min. Paese: Stati Uniti Distribuzione: Universal Pictures
Un fumettone dark…con una punta di erotismo al passo con i tempi.