MI AMI FESTIVAL 2024: Squarci di luce e pioggia viola, una piccola Glastonbury nei pressi di Milano
La stagione dei festival estivi sta scaldando i motori, roboante come un jumbo jet pronto ad entrare nelle esistenze di fan, appassionati, groupie, ascoltatori della domenica e “musicofili” perdutamente innamorati. Ma spetta sempre a qualcuno il compito di aprire le danze, inaugurando il periodo: questa volta il fortunato è il MI AMI FESTIVAL, una tre giorni di “musica bella e baci” (come recita lo slogan) che si è tenuta presso il Circolo Magnolia, all’Idroscalo di Milano. Anche se è passato qualche giorno, per poterne parlare devo per forza tornare a passeggiare lungo i Navigli, risalendo quella corrente brulicante di vita, suoni e persone, la Babele caotica di voci, fino a sedermi dietro uno dei tanti tavolini affacciati sulla Darsena. Magari sorseggiando un Pornstar Martini. Perché proprio questo cocktail? Ma perché è allegro, malizioso, sale leggerissimo con il suo retrogusto dolciastro stemperato nella determinazione del prosecco. Un drink “promiscuo” nel quale i sapori si mescolano senza distinzione, esattamente come la line-up spregiudicata del MI AMI: indie, alternative e urban si confondono superando ogni confine, senza distinzioni, creando un continuum attraversato febbrilmente da un fil rouge comune: l’amore incondizionato per la musica. Perché nonostante la pioggia battente che ha funestato soprattutto il primo giorno, così simile ad un giudizio universale (ma forse è solo un altro effetto speciale del cielo, per creare nuove suggestioni), la gente è lì per ballare e fare festa, abbandonandosi ad un sabba stregato scandito dalla musica, selvaggio appuntamento consumato tra note, colori, luci, glitter e fango.
La piccola Glastonbury dell’Idroscalo
Una piccola Glastonbury meneghina (e tutta italiana) che riecheggia i fasti – e il paesaggio – del più famoso festival musicale inglese, nata grazie alla creatività ostinata dei due ideatori e direttori artistici Carlo Pastore (uno dei volti storici di MTV Italia), Stefano Bottura (direttore responsabile della rivista ROCKIT) e del loro splendido team organizzativo. Un gruppo evidentemente collaudato che, da diciott’anni, regala a Milano – e a tutti gli appassionati di musica indie alla ribalta della scena contemporanea – un evento da celebrare, un rito pagano collettivo al quale partecipare tutti insieme perché, in fondo, il MI AMI è davvero il festival della musica bella, dei baci, e pure della musica importante a Milano (e non solo). Su cinque palchi si sono avvicendati, per tre giorni di fila, più di un centinaio di artisti e performer accompagnati (o meno) dalle rispettive band, in coppia o da soli, in un tripudio di voci, suoni e suggestioni che hanno davvero trasformato per un weekend – l’ultimo della primavera o il primo dell’estate, se volete – l’Idroscalo nell’ombelico di un mondo pronto a danzare sulle note. Fare l’appello, esattamente come a scuola, potrebbe rivelarsi deleterio: si rischierebbe di dimenticare in modo accidentale qualcuno, di sottolineare la presenza di un artista piuttosto che un altro, e questo sarebbe terribilmente scorretto. Meglio soffermare l’attenzione sulle prime volte, sui ritorni, sulle apparizioni a sorpresa che il MI AMI ha sempre saputo regalare ma mai come quest’anno, perché la maggiore età si festeggia una volta sola, e di solito bisogna farlo in grandissimo stile.

Una line-up all’insegna delle contaminazioni, senza distinzioni
Di sicuro, i cinque palchi (quattro – Champion, Jack Daniel’s, Idealista e Dr. Martens – più la spider arena) hanno accolto tutti gli artisti senza distinzione di alcun tipo, ospitando esperimenti arditi mai visti prima, performance inedite e spettacolari, karaoke improvvisati, apparizioni uniche (Calcutta e Giorgio Poi che compaiono a fianco ai Phoenix; Vasco Brondi e Dente insieme sul palco, Rhove che canta tra il pubblico e soprattutto Neffa che torna al suo primo amore, il rap, insieme a Ele A e Venerus, che si rasa i capelli dopo aver intonato Vita spericolata di Vasco) e ritorni di amici del MI AMI; tanti amici affezionati che in diciott’anni si sono aggirati molte volte nei vari luoghi del festival, quest’anno in particolare facendo su e giù, tra il palco e il fango, mescolandosi tra la folla in pura estasi. Come hanno fatto, ad esempio, I Tre Allegri Ragazzi Morti, freschi del loro nuovo album Garage Pordenone, che hanno presenziato tutti e tre i giorni regalando un excursus unico della loro intera produzione musicale, dagli anni ’90 ad oggi. Tra i ritorni inaspettati (e irripetibili) più attesi c’è quello che ha visto riuniti i CCCP, la band di Giovanni Lindo Ferretti e compagni che ha aperto le danze con un concerto memorabile al Carroponte di Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d’Italia”: un evento storico che ha riavvolto, letteralmente, il nastro del tempo, restituendo alle nuove generazioni un mito per chi è nato negli anni ’80 e ’90. Le novità, au contraire, sanno invece di innovazione e sperimentazione, tra accoppiate inedite e volti della scena più urban/alternative contemporanea: Bello Figo (sì, il trapper di Pasta col tonno, nessun misunderstanding) si è presentato con un’orchestra così come Johnson Righeira, presente all’appello con un manipolo di ukulele; ci sono i quotatissimi Chiello, Centomilacarie (entrambi freschi di una collaborazione con il producer Mace), Vale LP, Diss Gacha, Ele A, Anna and Vulkan affiancati ad un veterano come Willie Peyote.
Le tre facce della medaglia, l’indie e l’estasi
Due facce della stessa medaglia, anzi tre, proprio come recita la tag-line di quest’anno del festival: tre facce diverse, tre creature ibride ed esoteriche che occhieggiano dappertutto, vegliando sui partecipanti, dal poster passando per il merchandising ufficiale della kermesse. Quando finalmente varco la soglia mistica del Circolo Magnolia vengo accolta da una pioggia (ah-ah) di luci colorate, ambra e rosse, sulle quali campeggia cubitale la scritta MI AMI: quasi una domanda, un invito (come la canzone omonima dei CCCP), con quel punto di domanda immaginario lasciato in sospeso. Inizio ad aggirarmi tra il fango con un bicchiere di plastica pieno di Gin Tonic per bilanciare il Pornstar, il cui effetto sta finendo (come l’estate dei Righeira), e la sensazione che mi investe è una sola: l’estasi. La travolgente sensazione di essere lì, davvero, per la prima volta; di non dover inseguire la mia testa che corre veloce altrove nel tentativo di cercare nuovi stimoli: ciò di cui ho bisogno è tutto intorno a me, una festa di emozioni roboanti e di suoni potenti che riverberano dentro, proprio come i bassi che pompano dalle casse montate sui palchi. Le tre facce che mi fissano ovunque hanno un che di esoterico, un significato nascosto che mi porta a considerare, a tutti gli effetti, il MI AMI come una festa della scena indie e una celebrazione particolare di una “indie generation” che troppo spesso rischia di sparire ai margini di uno storytelling pop(ular), schiacciata tra le etichette che le vengono assegnate, la trap che avanza soprattutto tra la Generazione Z, il peso dell’idea di cantautorato e di una critica che troppo spesso ne ha ridimensionato l’impatto e la portata.
Niente di più falso per una generazione (dotata di una propria estetica, di un canone e di uno stile inconfondibili) che, ad ampio spettro, ha compiuto una delle rivoluzioni musicali più drastiche della scena contemporanea, segnando il passaggio da un pop commerciale all’autorialità contemporanea, più personale, complessa e indecifrabile, spettro di altrettante sfaccettature che identificano – e accomunano – molti dei nomi della scena stessa. Ci sono i già citati Calcutta, Venerus, Giorgio Poi, Dente, Vasco Brondi; le conferme di Colapesce e Dimartino (per la prima volta insieme sul palco del festival), Daniela Pes, Ex-Otago; le nuove promesse Lucio Corsi, Laila Al Habash, Marta Del Grandi, Marco Castello, Coca Puma e infine gli innesti di suoni e stili differenti di Parbleu, Tropico e Selton. Sono solo alcuni nomi – che, è vero, avevo promesso di non fare, mea culpa – ma necessari per sottolineare quello che, nell’edizione speciale di ROCKIT dedicata al MI AMI che mi consegnano all’ingresso, viene definito come “un nostro modo di vedere le cose, fatto di innesti confusi e contaminazioni”. E mai descrizione fu più azzeccata per provare ad inquadrare le tre facce di questa medaglia sfolgorante.

Un prisma di luce e la purple rain: al prossimo bacio
L’ho pensato subito, mentre mi aggiro – col bicchiere ormai vuoto – tra la gente, i capannelli sotto palco o in fila per la toilette, alla ricerca di cibo presso uno degli innumerevoli food truck disseminati nel verde; e mentre inizia a piovere, prima con cautela, poi rompendo gli ormeggi e inondando volti e strumenti musicali in egual misura d’acqua, mi ritrovo quasi sottopalco. Per caso, senza nemmeno provarci, come accade solo per le cose belle e inaspettate. Occhi al cielo – gonfio – prima e sguardo dritto davanti a me subito dopo, assisto alla magia del live, imprevedibile scaletta di emozioni che si susseguono in un tempo infinito, complice l’estasi che pervade – febbrilmente – tutti i presenti, lì solo per godersi lo spettacolo unico che la musica sa offrire. E tra coriandoli, luci e proiezioni, mi sembra che perfino la pioggia sia diventata viola, filtrata attraverso il prisma delle luci. Una purple rain salvifica che inebria e fa dimenticare, di colpo, fango e disagi, danza propiziatoria collettiva che invoca il ritorno del sole al limitare delle stagioni, tra il buio e la luce. Al prossimo bacio, caro MI AMI FESTIVAL: puoi starne certo.