Sly: Oggi recensiamo il documentario da poco distribuito su Netflix, dedicato ovviamente al mitico Sylvester Stallone (Tulsa King), ivi diretto da Thom Zimny.
Sly (nomignolo, peraltro, arcinoto col quale Stallone viene soprannominato) dura un’ora e trentuno minuti decisamente intriganti, sebbene inevitabilmente agiografici e con patetiche cadute nel dolciastro più retorico, alla pari delle migliori e peggiori pellicole, giustappunto, dell’immarcescibile nostro beniamino Sylvester.
Sly, ben accolto dall’intellighenzia critica mondiale, tanto da riscontrare, sul famoso sito aggregatore di medie recensorie, metacritic.com, la lusinghiera percentuale del 67% di opinioni nettamente favorevoli, scorre discretamente ed è, ribadiamo meglio esplicandovi, una fascinosa, per quanto inflazionata e non necessaria, retrospettiva, in forma di mockumentary, su una delle più rilevanti e imprescindibili, checché se ne dica e che vi piaccia o meno, icone della cultura pop di matrice cinematografica e non solo.
In quanto Stallone è oramai, da tempo immemorabile, entrato nell’immaginario collettivo di chiunque a livello planetario e non è famoso solamente presso i cinefili e gli amanti della settima arte pura.
È assurto, infatti, parimenti al suo fisico massiccio, a scultoreo e inamovibile, totemico divo mondiale in senso totale. Un vero e proprio idolo statuario delle folle! Che qui, attraverso la macchina da presa di Thom Zimny, quest’ultimo regista di molti videoclip di e per Bruce Springsteen, in modo nostalgicamente a metà strada fra il patetico e il magnificarsi emozionato, non sempre sincero, questo va però onestamente ammesso, meditando sulla sua carriera mostrataci mediante estratti di repertorio dei suoi film da interprete, a sua volta director, più celebri e popolari, ci narra sentitamente, forse furbescamente, in merito alla sua ostica infanzia in quel di Hell’s Kitchen e del rapporto perennemente conflittuale, estremamente problematico col suo defunto padre che, nei suoi confronti, fu quasi sempre manesco e aggressivo, osteggiandolo non poco nelle sue scelte, non soltanto professionali, perlomeno sin al punto di morte quando si dimostrò finalmente affettuoso, meritevole di perdono e, comunque sia, d’averlo messo al mondo.
Cosicché, Stallone, osteggiato dalla sua famiglia, talvolta perfino invidiato dal fratello Frank (Barfly), soprattutto dopo l’esplosivo e clamoroso successo sesquipedale di Rocky, dovette combattere nel duro e complicato, aspro ring della vita e all’interno d’un ambiente hollywoodiano assai difficile e altamente competitivo ove, come sappiamo, è facile finire al tappeto e non rialzarsi più.
In Sly, ripercorriamo il suo excursus esistenziale e al contempo filmografico, assistiamo alla sua quasi miracolosa e inaspettata, sebbene altamente anelata e strenuamente inseguita, sua ascesa nell’olimpo della Grande Mecca fra sconfitte e trionfi personali, inesorabili passi falsi e colpi vincenti, amicizie importanti, fruttuose e determinanti, accompagnati dal suo viso adesso rugoso, altresì eternamente carismatico e simpatico, nell’inanellarsi d’uno spericolato e segmentato, aneddotico gioco d’immagini memori non solo della saga dedicata alla sua creatura per antonomasia, ça va sans dire, Rocky Balboa, bensì omaggianti altri due franchise di culto quali naturalmente, in primis, Rambo & I mercenari, successivamente.
In un rocambolesco, mnemonicamente caleidoscopico, ottimamente montato e non solo da Stallone in prima persona raccontatoci, bensì anche dagli intervistati Quentin Tarantino, Henry Winkler (Fonzie, Happy Days – La banda dei fiori di pesco), Arnold Schwarzenegger, John Herzfeld (15 minuti – Follia omicida a New York) e company, viaggio reminiscente la leggenda stalloniana.
Cosa funziona in Sly
Sly è dedicato principalmente agli irremovibili e irriducibili aficionados accaniti di Sylvester Stallone e, come ogni documentario, per l’appunto, costruito in particolar modo per gli ammiratori d’un divo da costoro a spada tratta venerato, piacerà da morire a chi non vedeva l’ora di assistere a un’esaltazione del loro eroe preferito.
In ciò, Sly funziona alla grande ed è perfetto in ogni suo aspetto, giostrandosi con arguzia, addirittura delicatezza documentaristica e cineastica mista alla scaltrezza più studiata, malgrado, più che una mitizzazione del culto di Sylvester, frequentemente, sin dal suo malinconico incipit, sembri maggiormente e paradossalmente un “testamento funebre” con tanto di finale cupio dissolvi freddo ed emotivamente ricattatorio, oltre che populista, a livello prettamente qualitativo e oggettivo, poco artistico.
Cosa non funziona in Sly
Sly è un prodotto, sì, guardabile e apprezzabile, allo stesso tempo, soventemente, ripetiamo, furbo, commerciale e, osiamo dire, gravemente machista.
Poiché, per tutta la sua durata, rarissimamente Stallone stesso sa veramente, giustamente auto-ironizzare soprattutto sul suo attoriale periodo anni ottanta da edonista reaganiano ossessionato maniacalmente, a nostro avviso erroneamente, dalla propria muscolosa, stereotipata, quasi caricaturale forma fisica esagerata, partorita da tremendi anabolizzanti, prendendosi invece maledettamente sul serio in maniera un po’ ridicola e smodata.
Così che Sly, più che una distaccata e obiettiva panoramica sullo Stallone uomo, attore-regista e factotum, ammirabile in tal senso, self made man quasi in toto, risulta sostanzialmente un indigesto, premeditato documentario incentrato esclusivamente su una referenziale esaltazione eccessiva.
Sly emoziona in pochissimi momenti e, anziché aggiungere punti a Stallone, gliene sottrae invece molti. Perché, da tale documentario spesso fanatico, non emerge la reale personalità di Stallone, secondo noi invece decisamente più composita, quindi abbisognante di maggiore profondità psicologica. Così facendo, diviene sol un autoritratto melenso, indulgente e scarsamente stimolante.
Lungo tutto il film, infatti, anche quando Stallone si sofferma su episodi angoscianti, accorati, psicologicamente forti e dolorosi della sua vita intima e privata, soprattutto affettiva, come per esempio nel frammento riguardante e rammemorante suo figlio Sage (Rocky V) , tragicamente e precocemente scomparso nel 2012, “episodio”, anzi, avvenimento rilevante che poteva e doveva invece essere realmente struggente e vivamente emozionante, pare che Stallone strumentalizzi le sfortune capitategli per elevarsi a santino idealizzatosi in modo tronfio e pietoso.
Peccato. Sly, similmente allo speculare documentario Arnold, a conti fatti, sostanzialmente rimane molto in superficie e un’ode, ai limiti del grottesco, su un attore e personaggio, come dettovi, necessitante di miglior sottigliezza introspettiva.
Disponibile in esclusiva su Sky dal 3 Novembre 2023.
Regia: Thom Zimny Con: Sylvester Stallone Anno: 2023 Durata: 95 min. Paese: USA Distribuzione: Netflix
Premetto che NON ho visto il docufilm in questione,per cui posso basarmi solo sulla precisa, esauriente recensione dell’amico Stefano, della cui obiettività e perizia mi fido ciecamente.
Mi sembra infatti di capire che si tratti di un’opera alquanto “ruffiana” e ben poco introspettiva, soprattutto se si pensa che la “Sly’s story” e’ più o meno conosciuta da tutti, soprattutto per quanto riguarda le vicissitudini del primo “Rocky” ,con l’epilogo quasi fiabesco che vede uno Stallone squattrinato, con pochi dollari in banca, realizzare il suo sogno….
A questo punto, c’è da chiedersi se questa sorta di celebrazione fosse necessaria….Ai posteri l’ardua sentenza… Magari un giorno il nostro Sylvester diverrà una materia di studio…. Chissà….
“gravemente machista”, “forma fisica esagerata, partorita da tremendi anabolizzanti”..mancava solo un riferimento al patriarcato e stavamo al completo! I tremendi anabolizzanti di cui parli sono ben altro e non è certo un crimine farne uso..forse non hai mai fatto un solo giorno di palestra ma ti posso assicurare che oltre alle tremende sostanze ci sono anche tremendi sacrifici e tremendi allenamenti. Da questo punto di vista la tua recensione è piena di luoghi comuni e al contrario il film io lho trovato estremamente emozionante. Non mi sembra affatto da macho sottolineare l’importanza della moglie e delle figlie come ha fatto lui in alcuni passaggi