Renzo Rubino: “Quando è tornata la mia musica”
Metti una sera a casa di Alice, parafrasando il celebre film di Verdone del ’90. Solo che questa volta Alice non è Ornella Muti (anche se di una certa Ornella si tornerà a parlare nel corso della serata…), siamo in un eclettico loft che ricorda un atelier nel cuore del quartiere San Lorenzo, a Roma, sede – per una serata – non tanto della movida universitaria quanto quartier generale di un’intellighenzia artistica brillante e inquieta, tutti in attesa di un concerto privato di Renzo Rubino.
Il cantautore, classe 1988, è tornato sulle scene con ben due singoli (La Madonna della ninna nanna e Bisogna festeggiare, rilasciato il 22 dicembre) a far da traino al suo nuovo album, in uscita a marzo 2024. Ma nel frattempo, da pirotecnico vulcano creativo qual è, ha deciso di portare la sua musica (e non solo) in giro per l’Italia e l’Europa, visto che l’ultima tappa del suo nuovo tour Porto il Natale terminerà il 7 gennaio a Parigi, dopo aver toccato l’amata Puglia, il Lazio, la Lombardia, la Campania e tante altre regioni.
Un concept, quello alla base della nuova tournée, che sradica l’usuale idea di palco, allestimento scenografico e quarta parete a dividere l’artista dal pubblico, mettendo proprio la musica, il talento, l’intrattenimento e la leggerezza al centro dell’attenzione.
“La cosa che sappiamo fare meglio? Divertirci” ammettono sorridendo i sodali Fabrizio “Facø” Convertini (producer, musicista, videomaker) e Raoul Ventura (fotografo e videomaker), entrambi con Rubino in tour a bordo di un camper (come testimoniano alcuni video sui social che riprendono le loro avventure itineranti).
Quando varco la soglia dello splendido salotto di Alice e Andrea, incantevoli padrone di casa, mi accoglie un’atmosfera intima sulle note di un vecchio successo rock anni ’70: nell’aria è, ovviamente, già Natale (il live si è tenuto il 21 dicembre, NdR) e le luci verdi e rosse che si affacciano dal pianoforte che a breve suonerà Renzo non fanno che amplificare l’atmosfera.
Nonostante il numero crescente degli ospiti, il brusio di voci, il vino che si mescola con le chiacchiere e l’allegria da buffet, io e Renzo troviamo il tempo di parlare dei suoi progetti futuri, del suo amatissimo festival Porto Rubino e del ruolo che il mare – con tutto il suo immaginario – ricopre nella vita del cantautore, musicista e poliedrico artista, partendo dalle suggestioni di Ungaretti e della sua raccolta Il Porto Sepolto.
Potremmo partire da tanti argomenti diversi… potremmo parlare del nuovo album, del nuovo singolo disponibile dal 22 dicembre e di questo tour ma… prima di tutto, mi piacerebbe analizzare con te il concetto di porto. Ungaretti, ad esempio, lo considerava come il simbolo del viaggio introspettivo del poeta alla ricerca del mistero dell’essere umano. Per te, Renzo, cantautore e musicista, cosa rappresenta?
Io “porto” lo utilizzo sia come verbo – quindi “portare”, “essere”, portare qualcosa sostanzialmente di positivo e di bello – sia inteso come luogo, come porto vero e proprio, un approdo sicuro. Di fatto la sicurezza del porto è il mio essere così entusiasta, felice ed emozionato nei confronti delle cose leggere della vita che mi rappresentano. Poi questi sentimenti si trasformano in progetti, concerti, eventi, possibilità, canzoni… quindi Porto il Natale, Porto Rubino, “porto”… chissà cos’altro! (Ride, NdR).
E proprio a proposito di Porto il Natale… quando e come è nata l’idea di questo concept per portare direttamente la musica nelle case della gente e che segue, idealmente, l’idea alla base di Porto Rubino?
Porto il Natale nasce qualche tempo fa, così come Porto Rubino, in modo molto semplice: lo scorso anno ero in un periodo molto difficile personale ed emotivo. I miei famigliari non c’erano, erano tutti fuori, avevo voglia di sentire il calore della famiglia ma non solo nei luoghi che noi consideriamo “casa”: infatti, ho iniziato a suonare nelle carceri, nelle RSA, in alcuni centri diurni, nei centri di recupero e lì ho sentito il vero spirito natalizio. E che cos’è, in effetti? Per me è stare insieme in armonia, sentirsi parte dell’altro. Avevo voglia di calore, e l’ho cercato altrove. Così questa volontà si è trasformata in un format vero e proprio e quest’anno lo abbiamo riproposto, attraverso una serie di concerti iniziati a Locorotondo e che finiranno a Parigi il 7 gennaio.
Porto Rubino, invece, è nato sempre qualche tempo fa, quando non mi divertivo più con la musica e sentivo la necessità di fare qualcosa di diverso. Così ho preso la mia barchetta e ho iniziato a suonare nei porticcioli, come se fossi una sorta di busker del mare, un musicista non di strada ma del mare stesso anche se lo facevo, ahimè, illegalmente e infatti… mi hanno ancora ripreso per questo! Ad un certo punto ho deciso di trasformare il tutto in qualcosa di fatto bene, prendendo i permessi. Soprattutto durante il Covid il festival è cresciuto: noi poi, sostanzialmente, facciamo musica su una barca, con la gente in banchina; cantiamo il mare, un mare da proteggere, un mare non soltanto come elemento ma anche come parte dell’animo umano, qualcosa che per alcuni può essere un confine mentre per altri può essere invece un approdo o, per altri ancora, libertà assoluta.
Hai già passato in rassegna molti luoghi diversi tra loro nei quali ti sei esibito, ai quali possiamo aggiungere il palco di Sanremo, club, teatri, piazze… spazi diversi. E come cambia il tuo rapporto con il pubblico ogni volta che cambia il luogo dove ti esibisci?
Mah, dipende dal pubblico. Dipende sempre dal pubblico. Io cambio oppure mi adeguo alle esigenze del pubblico e anche le scalette che faccio in questi concerti sono dettate dalla volontà di chi mi viene a seguire, dettate dai luoghi in cui suoniamo. Oggi siamo in un posto molto artistico, una sorta di atelier, ieri invece ero in un vero e proprio salotto romano e qualche giorno fa in un condominio, a Bari, quindi volta per volta cambio canzoni e scaletta. Questo deriva probabilmente dal fatto che, anni fa, ho iniziato suonando in un nightclub e quindi mi sono dovuto adeguare alle esigenze del pubblico che non veniva lì per ascoltare le mie canzoni. Questa esperienza mi ha plasmato e fortificato e oggi riesco a sentire il pubblico, che è una vera fortuna.
Il 22 dicembre sarà disponibile il tuo nuovo singolo, Bisogna festeggiare, che segue il precedente La Madonna della ninna nanna ed entrambi anticipano il tuo nuovo album. Questo lavoro dove si colloca all’interno del tuo percorso artistico?
Diciamo che, dopo qualche anno che ero fuori dalle scene un po’ a causa del Covid, un po’ perché dei progetti sono saltati, ad un certo punto è tornata la musica. Io scrivo semplicemente per necessità, per voglia, per volontà… è la musica a scegliere il momento in cui tornare, ed è tornata forte e in una forma antica, come quella delle bande popolari. È un disco completamente analogico, che va da un’altra parte rispetto alla musica attuale che ascoltiamo tutti i giorni, ma è un tipo di musica che mi rende libero, felice, gioioso. Abbiamo registrato questo disco in Puglia, lo abbiamo fatto in teatro e uscirà appunto a Marzo, ed è molto ma molto emozionante.
La Sbanda, ovvero la banda musicale con cui di recente ti accompagni in tour e pure nel nuovo album, è diventata una parte fondamentale del tuo processo creativo: quando ti è venuto in mente di coinvolgerla attivamente nel tuo nuovo progetto e, soprattutto, quant’è difficile trovare un equilibrio tra un’idea moderna di cantautorato e una tradizione invece folk, legata alla tua terra, la Puglia?
Secondo me non esiste un’idea moderna di cantautorato: esistono le canzoni ed esiste la musica, quello che ognuno di noi sente di esprimere. Il cantautorato cambia rispetto ai tempi: magari, che so, per alcuni James Blake può essere un cantautore che però fa musica elettronica di un certo tipo, molto introspettiva. Però se prendiamo altri in considerazione, in particolare gli italiani, per cercare dei cantautori moderni potremmo prendere ad esempio anche un Calcutta, che secondo me è sì un cantautore di oggi ma non è moderno, perché le sue sonorità provengono da una storia che è una storia di canzoni scritte dai vari De Gregori, Venditti, Lucio Dalla, Battisti e da cui noi, ancora oggi, andiamo a pescare. È difficile trovare una formula ancora moderna di cantautorato, però ci sono degli esempi molto belli, secondo me, di cantautori come Iosonouncane, Andrea Laszlo De Simone e tanti altri che sono persone libere che non solo cantano o scrivono e basta, ma vivono la propria vita come una storia, un’opera d’arte, non si fossilizzano. E io non mi sento cantante, musicista o cantautore ma solo uno che fa delle cose che non sono sempre e solo legate alla musica, ed ecco perché è bello espandersi verso nuovi orizzonti. E la musica non so se è moderna o è antica o quello che è, però so che è la mia.
Il mare è un concetto che attraversa il tuo festival Porto Rubino: ti riporta all’idea stessa del nóstos, del ritorno a casa?
C’è stato qualche tempo fa, quando ho iniziato a fare musica e a viaggiare, quando ero veramente ragazzino – dai venti ai ventitré anni – che sono stato fuori; era un periodo in cui mi mancava tantissimo casa. Quando sono tornato dopo due anni, d’estate, la prima cosa che ho fatto è stata immergermi in acqua, nel mare. Ho fatto il morto a galla, ho guardato il cielo e mi sono sentito parte di quell’elemento che era il mare, sì, però della mia terra; parte delle mie radici. E quella cosa mi ha ispirato tantissimo perché ho capito che posso viaggiare quanto voglio, ma io provengo dal mare, dalla mia terra e da quel mare lì, che mi fa stare bene.
Qualche piccola anticipazione sulla nuova stagione di Porto Rubino e sul tuo futuro?
Qui è sempre un mistero: l’anno scorso, di questo periodo, mi sono detto “ok, è arrivato il momento di riprendere in mano la mia carriera da musicista”, e da un certo punto di vista… non l’avessi mai detto! Perché ho lavorato sempre, tutti i giorni, tornando a fare cose importanti che non mi aspettavo. È stato bellissimo ma anche tanto faticoso, cioè, dopo un piccolo periodo di inattività è stata dura riprendere “a bomba” tutto. Quindi adesso sono in quella fase in cui voglio rallentare da un lato, ma affinare dall’altro: ho tanti progetti nella testa, ma il primo in assoluto è quello di tirar fuori questo lavoro – il nuovo album – e di metterci tanta passione nel comunicarlo, perché ci abbiamo messo tutti dei grandissimi sacrifici affinché venisse fuori e merita, da parte nostra, uno sforzo finale per raccontarlo.
C’è una tua canzone molto famosa che è Pop in cui decostruisci il mito della canzone ma, soprattutto, della cultura pop; in una strofa in particolare, poi, dici “Devi fare una canzone pop/Una canzone di natura pop/Una canzone che racconti poc”
Sì, e poi dice pure una parolaccia, aggiungendo… “Ma chi cazzo è sto pop”.
Esatto, e la domanda è proprio questa: a distanza di anni, chi o cos’è ‘sto pop?
A distanza di anni non l’ho ancora capito! Diciamo che non esiste. La musica pop è una musica che diventa popolare quindi non puoi scrivere una canzone già popolare in partenza… forse lo diventa dopo. A parte che oggi il pop è comunque un genere musicale vecchio sotto certi punti di vista; ci sono dei canoni ben precisi da rispettare ma che, ahimè, non mi riguardano! (Ride, NdR)
La nostra intervista finisce, ma la parte più attesa della serata sta per iniziare. Quando le dita di Renzo toccano i tasti bianchi e neri del piano, noi spettatori veniamo automaticamente traghettati in un’altra dimensione dalla musica: per l’arco di una serata il mondo “là fuori” resta oltre i vetri della casa-atelier di Alice e Andrea e tutti i presenti – amici, conoscenti o sconosciuti – si ritrovano a battere le mani a tempo sulle stesse canzoni, a danzare improvvisati e goliardici valzer sulle note incalzanti e a cantare a squarciagola sia sui successi di Renzo – la hit Pop, Ti amo da star bene, Giungla, Il Postino (amami uomo) e la già citata Madonna della Ninna Nanna tra gli altri – che sulle richieste improvvisate sul momento, dal Venditti di Nata sotto il segno dei pesci passando per il repertorio Disney, Paolo Conte, De Gregori, la poesia di Lucio Dalla, Pino Daniele, Rino Gaetano e la coppia Ornella Vanoni-Gino Paoli.
Ma queste sono solo pennellate di colore ai margini di un concerto intimo e affascinante, con Rubino che offre il proprio generoso talento al pubblico ristretto raccontando il se stesso artista attraverso la propria musica, senza lesinare aneddoti divertenti, come quella volta in cui si ritrovò a duettare – o, per meglio dire, ad improvvisare – al piano Ma mì (o Mamì)insieme alla Vanoni, durante un programma televisivo in prima serata. E lo fa di nuovo per tutti noi lì presenti, eseguendo in dialetto milanese una delle canzoni della mala scritta da Giorgio Strehler, solo piano e voce, ricordandoci poco dopo come invece dovrebbe essere ‘O surdato ‘nnammurato, solo anima e talento, inseguendo la lezione del compianto Fausto Mesolella.
La musica è andata avanti per ore superando la mezzanotte e celebrando, in tal modo, l’uscita del nuovo singolo: Bisogna festeggiare si trasforma così in un imperativo morale, un invito ad abbandonarsi al ritmo – allegro e leggero – della serata. Lascio timidamente le canzoni dietro di me senza disturbare, varcando la soglia immaginaria di quel cerchio magico in cui il tempo si è sospeso giusto per un giro di valzer, salutando le risate, il caos, l’atmosfera festosa, prima di far ritorno verso casa. Sulla porta, è la padrona di casa Andrea a regalarmi l’ultimo pensiero della serata: “in fin dei conti, non è questo il Natale? Stare tutti insieme, divertirsi, cantare. È il potere della musica, che unisce le persone”. Me ne vado sorridendo e canticchiando sottovoce le note di canzoni che risuonano ancora nella notte, con le voci festose che sembrano seguirmi mentre attraverso la strada silenziosa.
Bellissimo articolo!
Raccontato da un cuore vivo ❤️