Ebbene, oggi per i nostri Racconti di Cinema, abbiamo ripescato dalla memoria un film molto affascinante, sebbene controverso e, ai tempi della sua uscita nelle sale, avvenuta nel 2004, snobbato, cioè The Libertine.
The Libertine, film abbastanza disdegnato dal pubblico e accolto piuttosto tiepidamente da parte di buona parte dell’intellighenzia critica che, dinanzi a quest’opera, ripetiamo, pregiata e molto interessante eppur al contempo, forse, in alcuni punti artefatta e leziosa, estetizzante e bellissima a livello formale ma carente per quanto concerne il versante degli sviluppi troppo contorti e poco approfonditi della sua bislacca trama arzigogolata, rimase alquanto spiazzata e non seppe, giustappunto, ove precisamente collocarla e come soprattutto giudicarla.
The Libertine, opus firmata dal regista britannico Laurence Dunmore. Proveniente, potremmo dire, dalla factory di Ridley Scott. Dunmore che, dopo un paio di video musicali, esordì e diresse The Libertine e, da allora, stranamente mai più s’avventurò e nuovamente cimentò dietro la macchina da presa per altri lungometraggi. Dirigendo, nel 2013, solamente uno short movie di tre minuti intitolato The Parting Glass con Paul Reid.
Fatto assai curioso, perlomeno considerando che The Libertine, malgrado sia stato, così come sopra accennatovi, un insuccesso e un notevole flop al botteghino, riscuotendo critici pareri contrastanti, ricevette comunque, di contraltare, anche numerose recensioni lusinghiere. Senza naturalmente trascurare il fatto, perdonate la nostra voluta ripetizione, che tale pellicola poté vantarsi di annoverare uno strabiliante cast di nomi altisonanti quali, fra gli altri e peraltro, il suo protagonista, il celeberrimo Johnny Depp, Samantha Morton, Rosamund Pike (però, misconosciuta allora), la stupenda Kelly Reilly, nei panni conturbanti, peccaminosi e piccanti della prostituta dai capelli rossi di nome Jane, e il sempre straordinario John Malkovich (qui, col naso posticcio per assumere maggiormente i tratti somatici del personaggio succitato da lui incarnato). Quest’ultimo risultante, oltre che naturalmente come uno degli interpreti principali, perfino produttore primario.
The Libertine fu vietato ai minori di 14 anni per via di alcune scene scabrose, reputate “passibili” di sgradevolezza che a molti tristi perbenisti ipocriti potevano e ancora potrebbero apparire disturbanti e ributtanti.
The Libertine, da non confondere con altri omonimi, cinematografici titoli per l’appunto identici. Fra cui La matriarca di Pasquale Festa Campanile con la compianta, da poco morta Catherine Spaak e Jean-Louis Trintignant (per il mercato statunitense, per l’appunto, divenuto The Libertine e, in tal caso, a sua volta traducibile con “la libertina” mentre, per quanto riguarda il film di Dunmore ci si riferisce a un uomo, quindi il libertino) e il francese Le libertin (sempre The Libertine per gli States) di Gabriel Aghion con Vincent Perez e Fanny Ardant.
Film della consistente, forse eccessiva durata di un’ora e cinquantaquattro minuti, The Libertine è tratto da un’omonima pièce teatrale ad opera di Stephen Jeffreys che, per l’occasione, l’adattò in sceneggiatura e riduzione-trasposizione per il grande schermo. Nostri cinefili coraggiosi intrepidi, in The Libertine, riducendone la trama all’osso, si narrano le prodi, più che altro balzane e scostumate, gesta di John Wilmot (Depp), Conte di Rochester, strampalato e guascone, fascinoso personaggio realmente esistito, eccessivo e romantico, malandrino e, come da titolo, libertino. Genio e poeta maudit? Talent–scout teatrale senza pari? Il quale, per fortuite circostanze e in virtù della sua personalità magnetica e carismatica, divenne amico e intimo confidente nientepopodimeno che di Carlo II d’Inghilterra (Malkovich). E s’innamorò della donzella e attrice Elizabeth Barry (Morton). Scoprendone, grazie al suo intuito infallibile, il talento smisurato e donandole il ruolo ambito di Ofelia nell’Amleto portato sulla scena nel film da noi, in tale sede, disaminato.
Morendo precocemente e tragicamente alla stessa età di Cristo, sì, a trentatré anni. Però, a differenza di Cristo (perlomeno, attenendoci alle versioni non profane delle Sacre Scritture, dogmatiche e inconfutabili per i religiosi credenti che non ammettono visioni revisionistiche e le ritengono blasfeme e improponibili), Wilmot condusse un’esistenza dissoluta, improntata e orientata al vizio e specialmente all’alcolismo. S’ammalò di sifilide e per l’abuso d’alcol, per l’appunto, il suo fisico, già messo a dura prova e debilitato dalla sua vita sregolata, ne risentì gravemente e, in un battibaleno, crollò.
Film sontuoso, con una naturalistica e bellissima fotografia molto d’atmosfera, quasi in stile Barry Lindon, curata nei minimi dettagli da un ispiratissimo Alexander Melman, musiche pertinenti, giammai pompose ma delicatamente potenti, di Michael Nyman (Lezioni di piano) e scenografie di gran classe firmate Ben van Os (accreditato con la v maiuscola).
The Libertine, dunque e ragion veduta, anzi, per le ragioni da noi brevemente ma esaustivamente esplicatevi, perché mai si rivelò un fallimento quasi totale? La risposta è la seguente, semplice e disarmante. Non ce ne diamo una razionale spiegazione in quanto è un film notevole.
La storia d’amore fra Wilmot ed Elizabeth è commovente e filmata da Dunmore con vertiginosi colpi magistrali di poesia, ripetiamo, elegante e toccante.
Johnny Depp offre una performance monumentale e i suoi occhi scuri, penetranti e assai sensuali, c’ipnotizzano, inquietano e allo stesso tempo trascinano per tutto l’arco della durata del film. Che forse sarebbe dovuta essere leggermente accorciata ma è poco male.
Un Depp, inoltre, inedito e sperimentatore nel suo eclettismo recitativo profondamente magnetico.
Il quale, soltanto quattro anni prima, si diede anima e corpo a una pellicola, potremmo dire, simile. Ovvero The Man Who Cried – L’uomo che pianse di Sally Potter (Orlando).