Ebbene oggi, per il nostro consueto appuntamento coi Racconti di Cinema, disamineremo Lo straniero senza nome (High Plains Drifter), diretto e interpretato nientepopodimeno che da Clint Eastwood.
Opus n.2 all’interno del mirabolante e versatile excursus cineastico di Eastwood in versione director, pellicola assai sottovalutata all’epoca, cioè ai tempi della sua uscita, avvenuta nel ‘73, Lo straniero senza nome, della durata netta di centosette minuti corposi e sanguigni, è invero un film capitale e decisamente importante, oltre che qualitativamente rilevante e, se volessimo utilizzare una tipica espressione del gergo critico, “seminale”, prestandosi fra l’altro a notevoli chiavi di lettura delle più disparate e affascinanti.
Attualmente, riscontra un lusinghiero e più che soddisfacente 69% di opinioni positive sul sito aggregatore di medie recensorie denominato metacritic.com. A testimonianza giusta del suo valore, aggiungiamo noi. Ma, come poc’anzi accennatovi, Lo straniero senza nome si rivelò un mezzo flop al botteghino e scontentò gran parte dell’intellighenzia, forse non pronta ad accogliere favorevolmente tale inaspettato western glaciale e atipico, perciò non poco lo equivocò, prendendo una terribile cantonata.
Sceneggiato da Ernest Tidyman & Dean Riesner, eccone succintamente la trama:
Un pistolero, chiamato The Stranger, giunge a cavallo nella cittadina di Lago e, in virtù, potremmo dire, del suo fascino carismatico, forse d’ancestrale matrice divinatoria, dopo la sua prodigiosa e repentina, sensazionale uccisione di alcuni sgherri, assurge a paladino del luogo, assumendosi l’onere, il compito e al contempo il privilegio, dallo sceriffo e dai suoi abitanti assegnatogli con onore, di consegnare alla giustizia tre pericolosi manigoldi e spietati fuorilegge.
Probabilmente, malgrado alcune sorprese, riuscirà nell’impresa e poi, parimenti alla sua entrata in scena misteriosa ed enigmatica, si dileguerà fantasmaticamente, eclissandosi in maniera altrettanto ignota e celere in un imprecisato altrove ermetico, aleggiando misticamente nel suo ipnotico spettro marmoreo.
Ambiguo, irresistibile, dominato dalla presenza titanica e rocciosa d’un Clint Eastwood eccellente, contornato da un cast di prima scelta, in cui si distinguono le presenze di Verna Bloom, Marianna Hill, Mitchell Ryan, Ted Hartley, Jack Ging, Billy Curtis e Geoffrey Lewis, Lo straniero senza nome è una delle pellicole imprescindibili nel carnet filmografico di natura, diciamo, eastwoodiana, e una pietra miliare della sua vastissima, giustamente lodata e sconfinata, mirabile carriera da regista.
Spettrale, avvolto da cineree atmosfere lugubri di morte, sebbene ambientato quasi esclusivamente in ore solari, quindi con pochissime scene notturne, Lo straniero senza nome emana una forza quasi esoterica, diviene, nel corso del suo lineare eppur imperscrutabile intreccio narrativamente desueto, un western metafisico ove a contare non sono tanto le azioni e quanto avviene e mostratoci, bensì le sottilissime e perturbanti implicazioni psicologiche effettuatevi in modo quasi impercettibile. Cioè, il film, apparentemente banale, perfino assurdo nelle sue dinamiche diegetiche, lentamente ma in crescendo emozionale e subliminale, diventa una metaforica visione onirica sulla stranezza e il mistero della vita stessa.
In fondo, chi è tale “straniero?”. Da dove viene, perché è arrivato sin a Lago, perché fa quello che fa e svanisce, forse tornando nella meta imprecisata, a noi resaci sconosciuta, da cui giunse? Ma sta ritornando lì oppure chissà ove è sparito e dove sta or andando? Ciò non ci viene rivelato, non ci vengono fornite le motivazioni, spesso irrazionali, dei gesti contradditori che, a Lago, compì. Perché, per esempio, fa eleggere sindaco un nano e, allo stesso tempo, si dimostra irriverente, soventemente sgarbato, perfino manesco nei confronti del gentil sesso?
Splendida fotografia di Bruce Surtees e strepitosa scenografia, scarna ma assai efficace ed inappuntabile, di Henry Bumstead.