Ebbene, oggi per i nostri Racconti di Cinema, ripescheremo una pellicola del 2003 forse a tutt’oggi leggermente misconosciuta, perlomeno parecchio sottovalutata, ovvero Identità (Identity), firmata da James Mangold (Cop Land). Un regista, indubbiamente, a sua volta spesso snobbato aprioristicamente in modo alquanto ingiusto e scorretto. In quanto, noi invece lo riteniamo un autore importante, con una sua poetica e un cinematografico sguardo cristallino, peraltro facilmente evincibile e netto, nient’affatto trascurabile, anzi, da rivalutare ampiamente, da lui espostoci ed enucleato anche nelle sue pellicole apparentemente più mainstream quali, per esempio, Logan. Mangold, un cineasta forse non eccezionale i cui film non sono particolarmente memorabili o, necessariamente, dei capolavori irrinunciabili, però un regista di spicco in grado di districarsi, con abilità rilevante, nel cinema di genere e non, in virtù, ripetiamo, delle sue rimarchevoli qualità evidenti. Prima, fra tutte, la sua capacità, per nulla sottovalutabile, di richiamarsi fortemente al Cinema del passato, sovente rielaborandolo e reinventandolo, con classe e stile, senza incorrere, d’omaggi eccessivamente didascalici o studiati, in pedanterie o sterili citazionismi superflui.
Per questo Identità, film della scorrevolissima e avvincente durata di un’ora e mezza esatta, infatti, Mangold si rifà espressamente, anche figurativamente, agli stilemi e all’estetica hitchcockiane, trasponendo in immagini una perfetta sceneggiatura, potremmo dire ad orologeria e ripiena di colpi di scena tanto spiazzanti quanto ficcanti e calibrati, diluiti efficacemente, ad opera di Michael Cooney e da lui stesso supervisionata e rivista in alcuni punti, diciamo, ritoccata con qualche personale apporto significativo. Uno script, inoltre, liberamente ispirato al celeberrimo giallo di Agatha Christie, Dieci piccoli indiani:
Trama:
A circa 24h ore dall’esecuzione capitale, uno psichiatra, il dr. Malick (Alfred Molina) analizza il caso, giustappunto, del condannato a morte preso da lui in analisi, Malcolm Rivers (Pruitt Taylor Vince, protagonista, assieme a Liv Tyler, dell’esordio registico di Mangold, vale a dire Dolly’s Restaurant). Quest’ultimo, come poc’anzi dettovi, sarà presto giustiziato in quanto ritenuto colpevole d’un crimine barbarico ed efferato. Malick deve decidere se Rivers abbia agito lucidamente in merito a tal orrore, che non vi sveleremo, da lui compiuto oppure, essendo affetto da gravissime turbe psichiche, deve essere assolto per infermità mentale. Nel frattempo, sotto la pioggia scrosciante e imperterrita d’una violentissima tempesta atmosferica, dieci perfetti sconosciuti, per fortuite circostanze, all’apparenza casuali, a causa d’un bislacco disegno del fato imperscrutabile, stazionano in un motel ove, pian piano ma in un terrorizzante crescendo rossiniano, cominciano a spuntare lugubremente i cadaveri. A poco a poco, a uno ad uno, alcuni membri di questa curiosa combriccola vengono singolarmente e spietatamente trucidati e massacrati da un ignoto omicida seriale.
Chi è il serial killer? Potrebbe essere uno di loro o, invece, s’annida al buio oppure altrove e non appartiene a nessuno degli uomini e delle donne presenti nell’autostello? A sbrogliare la matassa e l’incresciosa, allucinante situazione mostruosa e intricata, saranno forse imprescindibili e decisive l’acume e l’arguzia deduttiva di Edward Dakota (un grande John Cusack), detto Ed? Chissà… vi lasciamo alla sua visione e vi teniamo sulle spine e col fiato sospeso di sana suspense secca, lapidaria e glaciale.
Mortifero e al contempo dal ritmo vertiginoso, stracolmo di ribaltamenti di prospettiva imprevisti e superbamente architettati da una regia fluida e chirurgica, impreziosito da un cast impeccabile in cui, oltre a Cusack, sono puntuali e bravissimi Ray Liotta, una sexy Amanda Peet fascinosa, Jake Busey, John Hawkes, Clea DuVall, Rebecca De Mornay, John C. McGinley e William Lee Scott, Identità è, sì, imperfetto e presenta qualche inevitabile buco narrativo abbastanza inspiegabile, dunque, non tutti i pezzi del puzzle della narrata vicenda combaciano esattamente, altresì è un thriller che funziona egregiamente e si lascia vedere che è, come si suol dire, davvero un piacere. Sorprendendoci non poco e perfino, specialmente nel finale, parecchio inquietandoci. Ponendoci dubbi e interrogativi morali profondi. Funzionale fotografia di Phedon Papamichael e pertinenti musiche di Alan Silvestri.