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Racconti di Cinema – Amleto di Franco Zeffirelli con Mel Gibson e Glenn Close

Ebbene oggi, per i nostri racconti di Cinema, vi parleremo di Amleto (Hamlet) firmato dal compianto, sebbene discusso e discutibile, Franco Zeffirelli.

Un regista scomparso, come sappiamo, nel 2019, tanto celebrato quanto spesso inviso a molta intellighenzia critica che sempre ne criticò aspramente, non poco velatamente, il suo stile, da molti considerato infatti pedante, didascalico e lezioso oltremodo. Altresì elegante e inconfutabilmente affascinante. Amleto, uscito nei cinema mondiali nel ‘90, oltre a essere ovviamente una rappresentazione, per meglio dire, una cinematografica riduzione, in senso anche letterale, in quanto non integrale e molto personale (sceneggiatura a cura dello stesso Zeffirelli assieme a Christopher De Vore), dell’omonima e celeberrima tragedia di William Shakespeare, per il grande schermo rappresenta la quarta trasposizione cronologica, cioè avvenuta ovviamente in ordine di tempo, di un’opera del Bardo a cura di Zeffirelli, dopo La bisbetica domata (1967), il suo famoso Romeo e Giulietta (1968) e Otello (1986).

Stavolta, Zeffirelli affidò curiosamente, molto coraggiosamente, forse in modo vincente, il ruolo di Amleto a nientepopodimeno che all’australiano Mel Gibson, attore non propriamente teatrale e/o scespiriano. Forse Zeffirelli, memore del noto personaggio, follemente lucido, incarnato giustappunto da Gibson in Arma letale, optò per Gibson in quanto folgorato dal magnetismo carismatico di quest’ultimo, il quale ha sempre mescolato, nel suo mood attoriale, un portentoso istrionismo indomabile unito in modo alchemico all’irruenza grintosa e rabbiosa della sua peculiare recitazione sia istintiva che altamente professionale e feroce. Amleto, infatti, si presta bene alle fattezze fisiche di Gibson che, col potere iridescente dei suoi accesi occhi limpidamente azzurri e cangevoli, emana ipnotiche sensazioni di candore, purezza e al contempo di sana pazzia minacciosa e irosa. Il suo è un Amleto, in effetti, “ginnico” e atletico, vivace e poi cupo, melanconico ma anche estemporaneamente euforico, dal bel portamento, di bell’aspetto indubbio e, soprattutto, violentemente guascone, irriverente e con l’anima del menestrello giullare imprevedibile e matterello…

Trama, da chiunque conosciuta ma è necessario e imprescindibile riferirvela nella sua saliente essenza e in poche righe distintive:

Amleto è il principe di Danimarca e, nell’incipit, assiste addolorato, al funerale del re, cioè suo padre. Sua madre Gertrude (Glenn Close), egualmente, ne piange, apparentemente disperata e straziata, la morte funesta. Costei presto sposerà il nuovo re, ovvero il fratello del re defunto di nome Claudio (Alan Bates). Di lì a poco, Amleto, durante una buia notte gelida, presso la sommità del castello sua dimora, fra le guglie di tal fortilizio sfarzoso, vedrà allucinato, sia meravigliato che profondamente turbato e sgomento, il fantasma del padre (Paul Scofield). Il quale gli rivelerà che non morì per caso, bensì fu avvelenato dal fratello che, in combutta con Gertrude, l’assassinò in gran segreto a tradimento, dunque in maniera ancor più criminosa e turpe, per usurpargli il trono e sposarne lussuriosamente la moglie e giacerne carnalmente in modo incestuoso. Al che Amleto, innamorato della fascinosa Ofelia (Helena Bonham Carter), viene reputato pazzo da Polonio (Ian Holm), consigliere del re e padre di Ofelia stessa. Amleto è pazzo davvero oppure sta volutamente inscenando la sua finta follia per appurare la verità e meglio scoprire il torbido intrigo complottistico che fu alla base del sacrilego e scellerato assassinio perpetrato a danno del padre morto ammazzato?

Opus sbilanciata (definita, non a torto, scolastica da Paolo Mereghetti), scollata e con molte licenze poetiche, peraltro velleitarie e forzate, parecchio incentrata sul morboso rapporto edipico fra Amleto e Gertrude (infatti, Glenn Close non era e non è molto più vecchia, anagraficamente, di Gibson), con un’ottima prima ora visivamente d’impatto, con sontuose scenografie di Dante Ferretti e raffinati costumi di Maurizio Millenotti, pertinentemente musicata da un Ennio Morricone forse non particolarmente ispirato, comunque sicuramente efficace, l’Amleto di Zeffirelli non è memorabile ma neppure disprezzabile.

Gibson (doppiato da Giancarlo Giannini, bravissimo come al solito ma la cui voce, probabilmente, non era adatta per Gibson, malgrado Zeffirelli lo volle a ogni costo) è talvolta, sì, fuori parte e risulta un po’ a disagio nelle scene più prettamente, per l’appunto, teatralmente shakespeariane, eppur riesce lo stesso a essere convincente e trascinante in virtù della sua guizzante, folleggiante forza espressiva tipicamente sua e indiscutibile.

Splendida fotografia naturalistica di David Watkin.

Se volessimo divertirci con parallelismi e giocare sapidamente di meta-Cinema purissimo, perché non domandarci tale questione, non amletica, bensì semplicemente curiosa?

Gibson, alias per l’appunto Martin Riggs di Lethal Weapon, dopo l’Amleto di Zeffirelli, avrebbe interpretato altri due personaggi, in qualche modo, similari al suo Hamlet, ovvero Jerry Fletcher in Ipotesi di complotto (sempre firmato dal regista di Arma letale, Richard Donner) e Thomas Craven in Fuori controllo di Martin Campbell.

About Stefano Falotico

Scrittore di numerosissimi romanzi di narrativa, poesia e saggistica, è un cinefilo che non si fa mancare nulla alla sua fame per il Cinema, scrutatore soprattutto a raggi x delle migliori news provenienti da Hollywood e dintorni.

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