Minari: Demitizzazione dell’America reaganiana che diventa un “circo delle sfighe” nella peggior tradizione del cinema “da festival”. Si rimpiange quel cinema rural-populista anni ’80 filoamericano finché volete, ma di gran lunga più appassionante ed onesto.
Anni 80. David (Alan Kim) è un bambino coreano-americano la cui vita cambia nel momento in cui la sua famiglia decide di trasferirsi nelle campagne dell’Arkansas. Qui infatti il padre (Steven Yeun) intende creare una propria fattoria e inseguire il cosiddetto “sogno americano”, ma molto presto la famiglia andrà incontro a problemi e ostacoli, non ultimo l’improvviso arrivo della nonna dalla Corea.

Cosa funziona in Minari
A funzionare in Minari è la regia: soffice e misurata, pudica e calibrata, senza sbavature. Lee Isaac Chung è un autore pudico e attento: mantiene sempre la giusta distanza tra la mpd e i suoi attori, cerca il lirismo nell’immagine ma non si appoggia al facile sotterfugio della seduzione visiva.
Da accorto osservatore esterno, racconta la storia di un sogno americano inseguito e mai raggiunto eleggendola a dramma universale.

Perché non guardare Minari
Al di là dell’olezzo dimostrativo che a tratti fa capolino dietro alla pur innegabile bravura di Lee Isaac Chung, Minari alla lunga dimostra di essere una parata dell’ovvio: tematiche strabattute vengono messe in scena senza originalità.
Che lo sguardo sulla caduta del sogno americano sia uno sguardo altro – vale a dirsi esterno – non è cosa nuova. Stupisce invece e soprattutto l’assenza di un qualsivoglia discorso culturale – e date le premesse era ben lecito aspettarselo – volto a unire (o contrapporre) oriente e occidente, mondi antitetici che condividono lo stesso suolo rurale negli anni ’80 del benessere edonistico.

Minari lascia troppo spesso trasparire il sospetto di essere l’opera straniera (o dovremmo dire “internazionale”) confezionata ad hoc per concorrere agli Oscar. Sopravvivono l’efficacia di alcune sequenze e il crescendo drammatico nella seconda parte. Però, di fronte a questo cinema così asettico, calcolato e pretenzioso, che accumula disgrazie distribuendole su un tappeto ritmico flemmatico e immobile, vien da rimpiangere quel cinema rural-populista anni ’80 (“Il fiume dell’ira” et similia) filoamericano finché volete, ma di gran lunga più appassionante ed onesto.