His House: Dopo “Scappa – Get Out” e “Noi”, un buco nell’acqua del cinema politicamente corretto e orientato. Ecco perché.
Rial (Wunmi Mosaku) e Bol (Sope Dirisu)sono una giovane coppia che, dal Sudan, scappa in Europa. Qui, in una città del Regno Unito, si vedranno affidare una casa. Presto scopriranno però che dietro l’apparenza di normalità, l’abitazione nasconde qualcosa di oscuro e minaccioso.
Cosa funziona in His House
Il terrore spurio funziona, quantomeno nella prima parte. La perlustrazione delle ombre, dei volti dietro le mura, dei rumori sinistri e della generale atmosfera di abbandono e desolazione è efficace.
I momenti di paura, in altre parole, ci sono e tutto il primo tempo in generale vive di un bel crescendo angosciante. Complice anche la partecipazione emotiva offerta dal tema: due rifugiati alle prese con l’ostracismo e le mille difficoltà, per nulla disposti a tornare indietro (o quantomeno, questo è quello che pensa e ribadisce Bol).
Perché non guardare His House
Purtroppo His House manca quasi tutti i bersagli che aveva puntato. La seconda parte e il tremendo epilogo vorrebbero essere un punto di giunzione tra la storia e la riflessione sociale, tra il tessuto horror e la contemporaneità, un appello alla pietà e alla memoria che trascenda e al contempo rispetti il genere e le sue coordinate.
Obiettivi mancati dal momento che il film di Weekes cade nella peggiore di tutte le trappole: quella del ridicolo (certo, involontario). La rivelazione finale, infatti, davvero non si perdona.
Dopo “Scappa – Get Out” e “Noi”, His House è il terzo horror che da tre anni a questa parte tenta di affrontare le tematiche razzial-sociali in maniera aperta e frontale.
Va da sé che l’unico titolo davvero riuscito di questa ipotetica trilogia (volendo potremmo inserire anche Antebellum) è l’esordio di Jordan Peele, quello sì un horror intelligente e multistrato. Il bis, quel “Noi” passato giustamente in sordina, soffre i medesimi difetti di questo ancora più snobbato (altrettanto giustamente) prodottucolo targato Netflix: l’accumulo metaforico che schiaccia il piacere della visione, che vuole nobilitare la materia trattata, che troppo teme la serie B e mal gestisce il citazionismo. Ma soprattutto un film senza fascino (e almeno “Noi”, invece, un certo fascino lo conservava) e senza dolore. “His House” è un’evocazione senza risposta.