Ebbene, come sappiamo, fra un paio di settimane partirà la 77.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Che si terrà dal 2 al 12 Settembre, malgrado la tuttora imperante e allarmante emergenza sanitaria dovuta al Covid-19 presente e vigente, ahinoi, in molti stati.
Sarà un’edizione ridotta per esigenze appena sopra espressevi e i film in gara, di conseguenza, saranno assai meno rispetto alle passate stagioni.
Quale occasione però migliore, in concomitanza per l’appunto con l’imminente kermesse che tutto il mondo c’invidia, a distanza di qualche anno di distanza, per tornare leggermente indietro nel tempo al fine di disaminare nuovamente, forse con più neutrale e lucida obiettività, scevra dagli eventuali, fuorvianti e distorsivi clamori dell’epoca derivati dal successo riscontrato a quei tempi, la pellicola vincitrice dell’edizione nostra festivaliera tenutasi nel 2008, ovvero The Wrestler di Darren Aronofsky (Requiem for a Dream, Il cigno nero, Madre!).
Sì, The Wrestler fu presentato in Concorso, in data 5 Settembre del 2008, alla sessantacinquesima mostra del Cinema di Venezia, aggiudicandosi un po’ a sorpresa e inaspettatamente il Leone d’Oro.
Poiché The Wrestler, a prescindere dalla già acclarata nomea di Aronofsky, divenuto infatti subitaneamente un regista famoso ed estremamente interessante, essendosi nobilmente costruito, negli anni antecedenti a tale suo film acclamato, una reputazione rinomata presso i suoi aficionado e venendo perfino quasi istantaneamente, ottimamente stimato dalla nuova leva di Critici d’avanguardia sofisticati, fino alla vigilia della manifestazione suddetta, certamente non veniva considerato fra i papabili per la vittoria finale.
Trama:
sul finire degli anni ottanta, il lottatore di wrestling all’anagrafe nominato, osiamo dire battezzato Robin Ramzinski (Mickey Rourke) e invece, nel suo ambiente conosciuto col roboante e pomposo soprannome, forse però non tanto raffinatamente altisonante, di Randy ‘The Ram’ Robinson, nonostante abbia appena battuto sul ring il suo acerrimo rivale storico Ayatollah, è affaticato, a fine carriera e perciò sempre più esistenzialmente smarrito e onestamente, tristemente avviato, in modo malinconicamente decadentistico, sul viale del tramonto non solo a livello prettamente professionale e “pugilistico”.
È un uomo perduto e deperito sia nel coraggio che nel fisico, un uomo che, dopo essersi battuto mille volte sul quadrato, non riesce più chiaramente a inquadrare la sua vita. Un uomo che, pur ancora testardamente guerreggiando agonisticamente e imperterritamente da temerario combattente contro durissimi antagonisti nel suo pericoloso sport praticato con gagliardezza incoscientemente impavida, nella sua reale esistenza privata sta, in maniera inversamente proporzionale, velocissimamente e a vista d’occhio, come si suol dire, caracollando paurosamente, anzi, crollando a pezzi, inesorabilmente. Non riuscendo quindi a combattere nella palestra più importante, cioè quella della vita di tutti i giorni.
Cosicché, vivacchia alla giornata da mezzo pazzo e debosciato freak impoverito, dormendo da barbone sregolato in una roulotte scassata, trascinandosi pigramente fra una bevuta e l’altra e sprecando il suo tempo a gozzovigliare buffonescamente fra sciroccati, similmente a lui, sbandati e drop out irrimediabilmente inconsolabili oltre che non molto aderenti e adempienti alle ferree, pragmatiche dinamiche più normalmente sociali, diciamo…
Randy non vede quasi più sua moglie dalla quale, già da parecchio tempo, ha divorziato ed è inoltre malvisto dalla sua giovane figlia adolescente, Stephanie (Evan Rachel Wood). La quale non gli ha mai veramente perdonato di averla abbandonata, inducendola a prenderne le distanze non avendola peraltro, neppure nel momento del bisogno, a dovere, da buon, premuroso padre, aiutata.
Quindi, da lui se n’è presto, come detto, impietosamente distaccata, considerandolo un povero disgraziato, un patetico spostato incapace di poter sostenere, non solo con lei, qualsivoglia accettabile rapporto decentemente, affettivamente costruttivo ed umano.
Sì, Randy è solo autodistruttivo ed ha già distrutto chi gli è stato accanto o almeno vi ha, fallendo miseramente, coraggiosamente provato. Lui stesso è un uomo provato ma, della fierezza della sua anima ancora residuamente, intimamente scintillante, non si è del tutto privato. Vuole duellare contro tutto e tutti, non lapidariamente arenandosi, Randy non desidera affatto, sì, arrendersi, non vuole darsi definitivamente per sconfitto, vuole allenarsi, sbattersene… dei colpi martorianti e potenti a lui inferti dalla cruda, affliggente, spietata e crudelissima vita bastarda, vuole di nuovo, come un leone, battersi in modo valoroso e ruggente!
Randy rimane addirittura infartuato ma, a dispetto di tali gravi, insopportabili fardelli e della sua quotidianità assai dolorosa e complicata, in cuor suo non si dà assolutamente per vinto e della sexy, matura ballerina di lap dance di nome Cassidy (Marisa Tomei) è perennemente, romanticamente in crescendo infatuato, anzi, completamente perso e commoventemente innamorato, spasmodicamente.
Dunque, dopo aver tirato a campare con squallidi lavoretti dei più precari, umiliandosi e deprimendosi smisuratamente, dopo essersi con sua figlia redentosi e confessato lacrimevolmente, tentando forse inutilmente, soprattutto tardivamente, di scagionarsi dai suoi irrimediabili, umanissimi peccati e dalle sue scelte irreversibilmente tanto sbagliate quanto comprensibilmente compassionevoli, in barba a tutti, decide stoicamente ed epicamente di ritornare a battagliare con indomabile grinta delle più titanicamente ammirabili, rigettandosi nella mischia e sul ring con forza d’animo memorabile ed epica.
Come quasi tutti i film d’ascendenza vagamente “boxistica”, The Wrestler non è solamente un appassionante dramma toccante di natura profondamente intimistica. Può essere, in quanto visceralmente metaforico, visto e rivisto, analizzato, sviscerato e necessariamente speculato sotto variegati punti di vista dei bei più sottili e sfumati.
Mickey Rourke non vinse la Coppa Volpi a Venezia, al contempo non vuole a tutt’oggi ancora appendere i guantoni al chiodo, agguantò invece il Golden Globe ma, agli Oscar, perse purtroppo l’Academy Award come Miglior Attore Protagonista, battuto per un soffio e “ai punti”, per l’appunto, da Sean Penn di Milk.
Fotografia di Maryse Alberti (Velvet Golmine, The Visit, Stone).
Golden Globe alla canzone, dal titolo omonimo al film, di Bruce Springsteen.