Ebbene, oggi recensiamo il sottovalutato, perlomeno da buona parte dell’intellighenzia nostrana, Joe.
Presentato in Concorso al Festival di Venezia del 2013, esattamente il 30 Agosto, purtroppo insufficientemente distribuito in Italia, Joe è firmato da David Gordon Green. Regista assai giovane, soltanto classe ‘75, il quale però può vantare già un curriculum filmografico di tutto rispetto e di primo grado, sebbene c’appaia, va detto senza peli sulla lingua, un director discontinuo, leggermente sgangherato, la cui poetica non c’è ancora chiara né bilanciata. Avendo lui sbandato, potremmo dire, da pellicole adolescenziali strampalate come Strafumati con James Franco e Lo spaventapassere con Jonah Hill, alla sua rielaborazione più seriosa, intimista e malinconica, non efficace comunque, dello stesso Lo spaventapasseri, ovvero Manglehorn. Omaggio personale di Gordon Green al capolavoro appena citatovi, vale a dire Scarecrow, Palma d’oro a Cannes con Gene Hackman ed Al Pacino. Quest’ultimo a sua volta interprete, per l’appunto, in maniera auto-citazionistica, della pellicola di Green succitata.
Al che Gordon Green, riesumando il cadavere mai veramente sepolto né obliato dell’iconico, sanguinario e precisamente immortale Michael Myers, ha dato vita al reboot di Halloween. Incanalandosi, forse incastrandosi, in una nuova saga carpenteriana non apocrifa e dallo stesso regista de Il seme della follia patrocinata, in pieno approvata e sostenuta di generosissimo beneplacito commercialmente premiato.
Dunque, in mezzo allo sconnesso e disomogeneo turbinio prolifico di Green, smarritosi probabilmente da solo alla ricerca della sua stessa strada confusamente perseguita e battuta, diciamo dissestata e ancora acerbamente mal da sé asfaltata, ci sentiamo indubbiamente di affermare che Joe, malgrado non sia affatto un capolavoro, ci risulti in toto la sua opera migliore, certamente.
Joe, tratto dall’omonimo romanzo di Larry Brown, è un corposo melodramma di circa due ore, innestato su robuste, per quanto melanconiche, plumbee tinte thrilling che, come si suol dire, dopo un incipit quasi soporifero, carbura fortemente e in crescendo rossiniano a combustione lenta, accelerando dunque ritmicamente e narrativamente nel divampamento d’un finale con tanto d’immancabile, emozionante, stradale inseguimento ed un esplosivo, inaspettato climax dal retrogusto toccante e dolceamaro, intriso d’un morbido cupio dissolvi da pelle d’oca attorcigliato ad un happy end a metà, fintamente ma non furbescamente, consolatorio.
Trama:
il timido e incolpevolmente scapestrato Gary (Tye Sheridan) peregrina di città in città negli States a causa delle irresponsabili malefatte dell’alcolizzato padre scansafatiche, il burbero e assai violento Wade (Gary Poulter). Il quale, per sfuggire alla legge, costringe il figlio a un’esistenza perennemente precaria, picchiando inoltre la moglie ripetutamente e ricattandola perentoriamente con irosa furia insistente. Per via peraltro del suo carattere scontroso e dei suoi modi insopprimibilmente maneschi, sua figlia, vale a dire la sorella minore di Gary, s’è chiusa nel mutismo, auto-recludendosi protettivamente in casa nel suo secret garden emotivo ed erigendo un fortilizio comunicativo fra sé e la realtà esterna.
Gary è quindi in continua ricerca di lavoro. E, in una sperduta cittadina polverosa e sempre piovigginosa del Texas più southern, trova impiego e poi protezione di natura quasi paterna nel grezzo ed ambiguo, apparentemente debosciato, boscaiolo tuttofare Joe Ransom (Nicolas Cage).
Dopo vari, sconvolgenti accadimenti ed un’interminabile escalation d’altre psicofisiche violenze inaudite, per Gary e sua sorella pare profilarsi un’irrimediabile, imminente tragedia non scalpabile.
Le loro già difficilissime vite, alla fine, rimarranno intatte o solo miracolosamente salvabili?
Vi abbiamo già svelato abbastanza, anzi troppo. Perciò, non intendendo assolutamente rovinarvi la sorpresa e non spoilerando sui numerosi colpi di scena che, in modo avvincente, vengono in Joe dipanati lungo quasi tutto l’arco della sua movimentata vicenda, ci fermiamo qui dal dirvi giustamente altro.
Sorretto da un Nicolas Cage raramente così misurato e carismatico, il quale comunque conserva immutabilmente la sua trascinante, eversiva carica passionale, proverbialmente tipica del suo stile recitativo spesso e volentieri caricato, Joe è un ottimo film.
Piuttosto banale nella sua diegetica di costruzione filmica falsamente ricercata pressoché in linea, in maniera convenzionale, col classico canovaccio del prevedibile melodramma americano basato e ricalcato sugli stilemi della risaputa, già vista, quindi annoiante tematica della sconfitta e redenzione esistenziale, Joe ugualmente appassiona e allo schermo tiene incollati.
Per merito di una bella, atmosferica fotografia chiaroscurale di Tim Orr, di malickiane suggestioni che colpiscono nel segno e di un Nic Cage, come sopra dettovi, straordinariamente da Gordon Green diretto, rivivificato professionalmente, ispirato e completamente calzante, in quanto nato e tagliato per la parte del tenebroso uomo, ex carcerato, irredimibile eppur ostinatamente vivo e stoico nella sua durissima resilienza onestamente morale e grintosamente mirabile.