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Racconti di Cinema – Il grande Lebowski dei fratelli Coen con Jeff Bridges, John Goodman, Steve Buscemi, Julianne Moore e John Turturro

Ebbene, oggi recensiamo un film che certamente non ha bisogno di presentazione alcuna, ovvero il celeberrimo, oramai generazionale, osiamo dire monumentale Il grande Lebowski degli altrettanto illustri e incontestabili fratelli Coen, Joel & Ethan (qui, non accreditato).

Film del ‘98 della durata di un’ora e cinquantasette minuti, Il grande Lebowski, ai tempi della sua uscita, riscosse immediatamente un fortissimo apprezzamento da parte de pubblico, checché ne dica erroneamente Wikipedia. La quale infatti afferma in maniera assai inesatta che, per l’appunto, fu alquanto snobbato dagli spettatori, sebbene non incassò cifre da capogiro o da strapparsi i capelli, come si suol dire, peraltro a fronte di un budget, va sottolineato per precisione e correttezza, nient’affatto cospicuo, essendo un’opera indipendente.

Per quanto riguarda la Critica denominata ridicolmente ufficiale, invece, in effetti fu non poco disdegnato e sottovalutato in modo ignobile. Difatti, assurdamente, a dispetto del fatto incontrovertibile e giustissimo per cui oramai Il grande Lebowski sia, nel corso del tempo, asceso inconfutabilmente e, a ragion veduta, a cult movie assoluto, la maggior parte della cosiddetta intellighenzia palesemente lo prese assai sotto gamba e Il grande Lebowski fu quindi escluso da qualsivoglia riconoscimento e, diciamo, onorificenza.

Relegato perciò prestamente e scandalosamente a opera minore dei Coen. Un’incongruenza poco coerente e in linea col suo effettivo valore, cinematografico e non. Non vogliamo infierire contro la stolta sveltezza dei cosiddetti intenditori della Settima Arte ma sottostimare dapprincipio un film così, significa chiaramente prendere un abbaglio colossale dei più fallacemente epocali. Non ultima avvenne, per di più, la sua totale esclusione, oggigiorno reputata da chiunque imbarazzante e incomprensibile, dai premi Oscar.

Premesso ciò, accenniamo brevissimamente alla trama. Dato che, come lapalissianamente già acclarato, Il grande Lebowski, oggi come oggi, è un film che, si presuppone, sia stato visto da tutti. Se esistono persone che non l’abbiano ancora visionato, anche solo di sfuggita, possiamo tranquillamente e senza vergogna definirli dei poveri superstiti della stessa loro abissale ignoranza terrificante, osiamo dire allucinante. E della loro aberrante pochezza sesquipedale.

Ora, sia per l’appunto chiaro. Nessuno in questa vita è obbligato ad amare il Cinema ma Il grande Lebowski non è soltanto Cinema. È in verità il grandioso ritratto grottescamente magnificente, la fotografia malinconicamente lucente, lo specchio eternamente fulgente e ruggente d’una nostra intera generazione furente degli anni novanta e/o subito susseguente, è una pellicola di tutti noi, senza nessuna eccezione. Che siamo o siano vincenti o perdenti, tutte le persone non possono rinunziare ad ammettere che Il grande Lebowski, in un modo o nell’altro, rappresenti il manifesto onestamente più veritiero, anzi, tristemente e al contempo giocosamente sincero, dell’umanità nella sua completa interezza e conseguente, inevitabile stranezza. Un’umanità stramba ed esilarante, entropicamente stupefacente nella sua devastante, variegata molteplicità (s)fatta d’inconcepibili, immoderate, bellissime bizzarrie e buffe stravaganze stesse da noi tutti, in qualche maniera, esposte parzialmente oppure no, pazzamente esibite e non, vissute, sognate o soltanto appartenenti all’immutabile e irrinunciabile nostra natura geneticamente sognante, variopinta e lunatica, visionaria e allo stesso tempo sanamente malata…

Il grande Lebowski, cioè, non è solamente un capolavoro, è un’indispensabile traccia d’importantissimo DNA, in matrice e formato celluloide, della nostra anima, delle nostre emozioni vitali più essenziali.

Perdonateci se ci siamo leggermente allungati in tale digressione ma ci pareva il minimo omaggiare Il grande Lebowski con tale nostra celebrativa introduzione, diciamo, dogmatica.

Jeffrey Lebowski (uno straordinario Jeff Bridges in a role of a lifetime) è un perdigiorno scansafatiche che spende le sue giornate, dalle persone normali considerate futili, anzi del tutto inutili, nel rendersi utile, paradossalmente, soltanto a sé stesso.

Cioè, svergognatamente e dunque ammirabilmente in modo incredibile, si disinteressa da menefreghista di qualsiasi sociale e lavorativo, sentimentale impegno. Dedicandosi quasi esclusivamente a girovagare a zonzo per Los Angeles, tracannando White Russian da mattina a sera e trascorrendo le serate al bowling coi due suoi amici più fannulloni di lui, ovvero l’ex, corpulento, irascibile e incontenibile reduce del Vietnam Walter (John Goodman) e l’afasico, strepitosamente impassibile Theodore (Steve Buscemi).

Per un curioso e sconvolgente caso d’imprevedibile omonimia, Lebowski viene scambiato per un ricco miliardario, forse fintamente filantropo. Da quest’equivoco titanico, ecco che i fratelli Coen c’immergono in uno strampalato sottobosco di personaggi pittoreschi assai singolari quasi quanto Lebowski e i suoi amici, trascinandoci dentro un’indimenticabile avventura e un visivo caleidoscopio spassosissimo intelaiato a mo’ di farsa dolcemente melanconica e al contempo giocondamente euforica, sprizzante vita meravigliosa.

Eccentricamente estrosa, brillantemente “mostruosa” alla pari del loro talento tagliente, satiricamente feroce, in una parola parimenti balzanamente ghiribizzoso.

Memorabili tutti gli attori, dal succitato Bridges, ipnotico protagonista immantinente simpaticissimo a pelle, a Julianne Moore sin ad arrivare, naturalmente, al mitico Jesus Quintana/John Turturro e al cammeo, nel finale, di Sam Elliott.

About Stefano Falotico

Scrittore di numerosissimi romanzi di narrativa, poesia e saggistica, è un cinefilo che non si fa mancare nulla alla sua fame per il Cinema, scrutatore soprattutto a raggi x delle migliori news provenienti da Hollywood e dintorni.

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