Ebbene, a Ottobre, il grande David Fincher (Panic, Room, Gone Girl – L’amore bugiardo, Zodiac) uscirà nei cinema con l’attesissimo Mank (soprannome simpaticamente affibbiato al celeberrimo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz), biopic incentrato per l’appunto sulle tumultuose vicissitudini tormentose e, paradossalmente, così come spesso avviene in tali casi, creativamente portentose che furono alla base della geniale ispirazione, assieme ad Orson Welles, dello script inerente la cinematografica pellicola definita per antonomasia, forse coniata in modo però leggermente magnificante, come la più bella del mondo e di tutti i tempi, ça va sans dire, Quarto potere (Citizen Kane).
Quale occasione migliore, quindi, in attesa peraltro della terza stagione di Mindhunter, per disaminare uno dei cult movie, almeno per la generazione X, più discussi e controversi di sempre, ovvero Fight Club.
Film del ‘99 della tosta e notevole durata di due ore e diciannove minuti, presentato al Festival di Venezia dell’anno suddetto e, fra molti clamori e non poche immediate polemiche, annunciato forse esageratamente e in smodata, osiamo dire, azzardata pompa magna, come il nuovo Arancia meccanica.
Buona parte della Critica benpensante dell’epoca ne rispose in maniera quasi unanimemente facinorosa.
Poiché rimase facilmente scioccata e inesorabilmente provocata dinanzi a tale slogan indubbiamente, a sua volta, provocatorio e, come appena dettovi, sfrontatamente eccessivo poiché paragonare un film, ancora prima che uscisse, a una delle pietre miliari del Cinema di Stanley Kubrick, coincise inevitabilmente e, a livello prettamente promozionale, semplicemente attraverso una ricercata mossa pubblicitaria capziosa e giocosamente maliziosa a mo’ di specchietto per le allodole tanto invitante quanto, giocoforza, creata appositamente, in modo ambiguamente e forse nocivamente fascinoso, col voler innescare e cercare furbescamente, in modo voluto, il piacere morboso di suscitare reazioni consequenziali, queste sì, studiatamente, programmaticamente e prestamente, fortemente contrastanti.
Sì, l’intellighenzia rimase impietrita e perfino disgustata, per l’appunto, dalla strategia reclamistica adottata da Fincher & company, replicandone con frettolosa durezza e presunzione, diciamocela chiaramente, prevedibilmente sostenuta e prevenuta, stroncando la pellicola imparzialmente e in maniera oltremodo insostenibile e poco doverosa.
Tant’è che per esempio, a tutt’oggi, Paolo Mereghetti non ha voluto cambiare opinione in merito al mediocre valore da lui attribuito a Fight Club, non smuovendosi, crediamo snobisticamente, dalle sue scarse due stellette assegnategli già ai tempi della sua veneziana presentazione.
Non recedendo dalla sua recensione superficiale e non ricusandone alcuna parola da lui già allora eufemisticamente, più che altro disprezzatamente, dedicatagli con impietosa fierezza lapidaria e ottusa, con severa e cattiva fermezza incredibile, incedibile, sinceramente stolta e insoffribile.
Chiariamoci, rivisto e riguardato col senno di poi, sicuramente Fight Club non è un moderno A Clockwork Orange ma i suoi molteplici pregi e le sue indubbie qualità evidentissime non sono neppure racchiudibili o riassumibili nelle disturbanti, testuali, concisamente precipitose frasi apodittiche appioppategli da Mereghetti in modo non tanto (di) contenuto, osiamo dire, irritato e perfino stizzito, finanche scontato e soprattutto odioso. Ovvero le seguenti: immorale e fascista.
Ma adesso tralasciamo questa clamorosa provocazione stessa edita, non sappiamo se erudita, però di certo orgogliosamente ridicola così enunciata, anzi, di patetico editto emessa, a suo modo insindacabile e borioso, dal proverbiale e soventemente, impeccabilmente fastidioso, oltreché famoso, critico del Corriere della Sera, e accenniamo invece, giustamente, alla trama di Fight Club. Al contempo, sintetizzandola assai meno rispetto alle secche e brutali definizioni sopraccitate ed estrapolate testualmente dal Dizionario dei film ad opera del Mereghetti stesso:il protagonista (interpretato da Edward Norton ma il cui nome, allo spettatore, rimane ignoto) è il consulente di una compagnia assicurativa del ramo automobilistico. Precocemente ingrigito nell’umore suo, perennemente depresso, ed instancabile, irredento schiavo comunque inguaribilmente scontento del consumismo ossessivo-compulsivo e del più frenetico mondo moderno col suo indeprecabile life style improntato all’insegna della frenetica baraonda più frivolmente vacua e disarmante, s’illude di disintossicarsi dalla sua imperterrita tetraggine umanamente comprensibile e allo stesso tempo pateticamente disumana e insopportabile, tentando disperatamente di curarsi da ogni suo insanabile, atavico male di vivere radicatogli dentro in maniera preoccupante e inestirpabile, cominciando a bazzicare sempre più spesso i più disparati centri e gruppi d’ascolto frequentati da malati terminali, disperati o da persone affette da gravi patologie di varia natura, fisica e/o mentale.
A contatto infatti con la vera sofferenza, specialmente carnale, il protagonista prova difatti invano ad esorcizzare i suoi demoni e veleni interiori. Proiettandosi nei dolori altrui nel cercare di sublimare e attenuare, in maniera contrariamente proporzionale e antiteticamente speculare al suo crescente disagio col vederlo corposamente riflesso negli atroci, inconsolabili visi della gente straziata che patisce davvero incommensurabili supplizi, sfogandosi dunque e ragion veduta, come si suol dire, in catartici piagnistei continui e interminabili a cui invece il protagonista impotentemente assiste soltanto disincantato, così facendo s’incarna lui stesso nell’assistente sociale non del prossimo, bensì del suo estemporaneo io falsamente rincuoratosi ma tristemente, specialmente auto-punito e stupidamente disingannato.
In uno di questi gruppi, potremmo dire, di mutuo soccorso, ecco che all’improvviso incontra la misteriosa Marla Singer (Helena Bonham Carter). Che, alla pari di lui, non soffre di nessun male realmente esistente, bensì, alla stessa maniera per l’appunto del protagonista, ha trovato un effimero ripiegamento delle sue afflizioni esistenziali in tale strampalato, sol ancor più autodistruttivo gioco di auto-eutanasia liberatoria d’ascendenza assurdamente, psicologicamente finto taumaturgica e ricattatoria.
Durante uno dei suoi tanti voli in aereo, il protagonista di Fight Club incontra il carismatico rappresentante di una ditta di saponette, cioè l’impavido anarcoide svergognato e stoicamente ribelle socialmente di nome Tyler Durden (Brad Pitt).
Fra i due nasce un istantaneo feeling…
Ma chi è Tyler Durden, in verità?
Il doppio e la celata personalità soffertamente soffocata, alienata ed ovattata del protagonista, il quale è un cronico depresso bipolare malato perfino di congiunta schizofrenia che ha creato, in forma solipsistica ad aderenza del suo superomismo inconscio e del suo innato narcisismo, l’esatta incarnazione virtualmente clonata ed immaginaria degli strozzati capricci del suo innato eppur indomito ego da lui castigato nella quotidiana realtà ché è impossibilitato, a livello puramente logistico, di mostrare e svelare nella sua nuda, coraggiosa trasparenza fottutamente dannata e forse perversamente sensata all’interno di una società lividamente cinerea, ipocrita e soprattutto maggiormente, rispetto a lui, grottescamente smidollata e da ogni valore oramai irreversibilmente dissociatasi?
Tratto dall’omonimo libro di Chuck Palahniuk, scrittore celeberrimo per i suoi duri, forse solamente, raggelanti, veritieri pamphlet requisitori e anti-sistema, Fight Club di Fincher n’è una piuttosto fedele trasposizione non sempre sistematica. Ovviamente, in alcuni punti salienti, così come spesso succede per gli adattamenti cinematografici, innocuamente e leggermente differenziata rispetto al libro originario, assai più micidialmente eversivo e d’avanguardia.
Fight Club è girato magistralmente, la fotografia di Jeff Cronenweth è superba e gli attori sono in forma splendida.
Fight Club però pecca di un solo difetto. Un difetto alquanto gravissimo, ahinoi, rimarchevole.
Vorrebbe essere, per l’appunto, un j’accuse potente contro la società dei consumi ma, restando pur sempre un’opera mainstream destinata indiscriminatamente al grande pubblico e targata ad effige della 20th Century Fox, si fregia del sex symbol per eccellenza degli anni novanta e non solo, Brad Pitt.
Dici poco…
Ovvero un uomo, professionalmente parlandone, cresciuto e assai maturato negli anni a venire, ma, ai tempi della release di Fight Club, quasi esclusivamente identificato dai più, cioè gli omologati di massa, come il modello più lampante dello stesso edonismo piacione e relativistico alla base della squallida cultura machista nostra occidentalmente antidemocratica (qui, forse aveva ragione Mereghetti) e biecamente figlia del più retrogrado cameratismo antiprogressista.
Sì, una becera cultura agghiacciante purtroppo insuperata e modernamente, mostruosamente medioevalistica, sì, Fight Club si rivela, sotto questo punto di vista, un film anacronisticamente modellato nel più bastardo, sozzo ideologismo oscenamente turpe di matrice più laidamente maschilista. In una parola oggettiva, oscurantistica.
E non può dunque essere naturalmente preso del tutto seriamente.
Per questo non è Arancia meccanica, per questo è un divertissement, sol un bel film follemente visionario e spesso, addirittura, cattivamente onesto.
Sebbene, vada detto chiaramente che i dolorosi pugni allo stomaco scagliati contro l’uomo stupido dell’era moderna sono e devono assolutamente essere altri.
E di certo feriscono e fanno più male dei pugni ininfluenti che il protagonista, Tyler Durden e la loro bislacca, agguerrita compagine di trasgressivi ribelli senza una robusta causa (anche forse casa per chi ha visto o vedrà Fight Club) si danno senza molta parsimonia in questo film che resta, a suo modo, importante. Anche nell’excursus cineastico, in tal caso ancora un po’ irrisolto, acerbo e qua, anzi, qua e là, artefatto di David Fincher. Un regista che, oggi come oggi, non sbaglia più un film e assesta invece grandiosamente colpi furenti profumati d’elegante celluloide magnificente.
È forse questa la vera rivoluzione approssimativamente profetizzata nello stesso Fight Club.
Vale a dire l’evolversi come persone e come artisti, semmai, per migliorare di conseguenza il mondo e noi stessi, svecchiando vetusti stili e stilemi angoscianti di vita non più adatti al nostro stesso vitale, energico e propulsivo, interiore cambiamento radicale, combattendo perciò le iniquità, sociali e non, con un’arma tagliente non a doppio taglio ma ancora meno convenzionale, meno antiistituzionale ma a nostra comunissima disposizione, quella ovvero più devastante che un uomo possa avere, cioè la speranzosa, lindissima e talentuosa potenza vigorosa delle sue inarrestabili, fluide e nitidissime idee cangianti per inseguire nuove albe rinascenti nel continuum spazio-tempo cavalcante il nostro rigenerarci a tamburo battente. Sarà solo una chimera? Un’illusione momentanea come la più fugace stessa nostra umana vita innatamente, dunque mortalmente evanescente o finalmente, definitivamente non più lamentosa e funerea? Sempre meglio comunque che morire ingessati nella spettrale immutabilità lugubremente abitudinaria delle proprie certezze orridamente sbagliate, ordinate a fascistici modelli d’ordinanza inderogabile e insopprimibilmente malati di resipiscenza letale e malsanamente cicatriziale.
Sempre meglio che, nell’apparente e deleteria, buonista omeostasi permanente, fossilizzarci e giammai cambiare, rimanendo ancorati, ancora mummificati e fermi a mortali e mortificanti schemi del nostro stesso passato comunque indelebile.
D’altronde, Franco Battiato cantò in modo lungimirante, eh sì, Segnali di vita.
Che voglia di cambiare che c’è in me… Si sente il bisogno di una propria evoluzione sganciata dalle regole comuni, da questa falsa personalità, segnali di vita nei cortili e nelle case all’imbrunire…