Mank: Arriva sui nostri schermi domestici uno dei film più attesi dell’anno.
Ebbene, oggi recensiamo uno dei film più attesi dell’anno, finalmente distribuito e dunque fruibile su Netflix a partire dallo scorso venerdì 4 Dicembre. Vale a dire lo straordinario Mank di David Fincher (Panic Room). Come tutti sappiamo, ahinoi, un 2020 funestato dall’imprevisto e tragico Covid-19 che, a tutt’oggi, non soltanto ha bloccato quasi tutte le uscite cinematografiche sul grande schermo, rallentando clamorosamente e funestamente la normale fruizione, per l’appunto, in sala dello spettacolo più bello del mondo, cioè il Cinema stesso, bensì ha negativamente influito sul normale svolgimento della vita di noi tutti, in fervida attesa di notizie presto confortanti riguardo la triste emergenza sanitaria purtroppo ancora in atto.
Detto ciò, passiamo a Mank.
L’estenuante attesa non è stata però vana e le alte aspettative in merito sono state ampiamente ripagate. Poiché concordiamo con la Critica d’oltreoceano, che ha subissato di lodi la pellicola di Fincher, nel rimarcarne gli assoluti pregi, entusiasticamente celebrando l’ennesima, strepitosa prova di uno dei massimi talenti attoriali viventi, nientepopodimeno che Gary Oldman. Sicuro candidato, grazie alla sua performance, ai prossimi Oscar.
Scritto dal padre di David Fincher, Jack (deceduto nel 2003), Mank è un biopic vagamente romanzato inerente le vicende personali di Herman J. Mankiewicz (Oldman), celeberrimo sceneggiatore del titanico Quarto potere (Citizen Kane) di Orson Welles. Concentrato, in particolar modo, sul rapporto burrascoso, creativamente conflittuale, a livello sia puramente ideologico che amicalmente difficile, intercorso fra lo stesso Mankiewicz e Welles stesso (Tom Burke).
Incipit: Mankiewicz, alcolizzato incurabile, acciaccato e ubriaco a letto, spesso farnetica in modo illusoriamente graffiante sul mondo, ironizzando con sapida amarezza sulla tragicommedia della nostra insanabile condizione umana su cui, per l’appunto, si può solo giocosamente infierire con sana strafottenza. Prendendo in giro noi stessi in quanto consapevoli dell’irrimediabilità d’un mondo ipocrita e stupido.
A Mankiewicz, il genio di New York, appena approdato a Hollywood, vale a dire Orson Welles, commissiona una sceneggiatura da scrivere in novanta giorni poi drasticamente ridotti a sessanta.
Cioè, in due mesi, fra alterchi coi suoi colleghi, divertite e al contempo tristi serate ai night frequentati dall’alta società dell’epoca, fra lievi incontri nell’oscurità con la damigella Marion Davies (Amanda Seyfried), suicidi inaspettati e l’imbalsamato magnate della stampa altezzoso ed affettato William Randolph Hearst (Charles Dance) assistito dalla sua paziente segretaria Rita Alexander (Lily Collins), affranto ma pur sempre candidamente innamorato della sua sposa Sarah (Tuppence Middleton), il “fallito” Mank porterà a termine lo screenplay di Quarto potere.
Cosa funziona in Mank
Illuminato dalla pregiata e suggestiva fotografia in b/n, cromaticamente assai elegante ed ipnotica, di Erik Messerschmidt, ritmicamente ed ottimamente montato dal maestro dell’editing del fido collaboratore di molte recenti opere di Fincher, Kirk Baxter (Gone Girl – L’amore bugiardo, The Social Network), musicato dal solito Trent Reznor in associazone con Atticus Ross, Mank rappresenta a nostro avviso l’opus migliore di Fincher in assoluto.
La sua vetta. Un capolavoro nel capolavoro stesso di Welles, reinventato e filtrato dall’inventiva fascinosamente ammaliante d’un Fincher ispiratissimo che ci stupisce puntualmente, rapendoci in esso, donandoci immagini fenomenali ed ammantandole di morbida, poetica malia brillante. Stratificando la complessa ed interpretativamente molteplice storia raccontataci nello spezzettarla e poi delinearla, genialmente, in sorprendenti analessi poderose e flashforward magneticamente turbinosi che lasciano a bocca aperta.
Incantandoci, quasi al detonare e risonare magnetico di ogni suo suadente frame, nel ricomporre i pezzi del puzzle della storia estremamente interessante, come detto, che stette alla base della complicata, non poco problematica, lavorazione e della compiuta realizzazione di un capolavoro imprescindibile della Settima Arte più rinomata.
Perché non guardare Mank
Se non amate le filmate cosiddette “storie vere” che vere, invero, non lo sono mai, in quanto sono semplicemente la reinterpretazione personale d’un regista, in tal caso Fincher, al servizio del soggettivo cinematografarle a sua stessa filmica dialettica, adattando la fantomatica veridicità degli eventi realmente occorsi ai suoi espressivi codici di natura ineludibilmente fictional e ai suoi tipici, intimi stilemi di rilettura e della propria reinvenzione immaginativa, Mank non è ovviamente adatto a voi.
Per di più, Mank non è un banale biopic, bensì un’autobiografia liricamente e stilisticamente poliedrica, in molti punti arabesca, giostrata su sublimi, peranco subliminali, tocchi visivamente caleidoscopici, molto giocata su rarefatte e volutamente indecifrabili microstorie, a mo’ di matriosca, perfino autoironicamente grottesche e apparentemente effimere ai fini dell’impalpabile eppur robusta ed assai efficace sua tortuosa e pluristratificata, inintelligibile struttura narrativa decisamente avvolgente e allo stesso tempo torbida e sfuggente.
Scenografia magnifica di Donald Graham Burt (Il curioso caso di Benjamin Button).
Il film è disponibile dal 4 Dicembre su Netflix.