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Racconti di Cinema – Mulholland Drive di David Lynch con Naomi Watts e Laura Harring, il capolavoro del ventunesimo secolo?

Il capolavoro del ventunesimo secolo, a detta di molti critici.

La domanda che dobbiamo porci, in questo appena iniziato 2019, è: Mulholland Drive o, se volete stilizzarne il titolo come nell’originale, Mulholland Dr., a tutt’oggi, dopo che è trascorso quasi un ventennio dalla sua osannata presentazione al Festival di Cannes, è ancora, come allora o più di prima, anzi dopo la sua première, quell’indissolubile, paradigmatica pietra miliare intoccabile che, nel ribaldo 2001, frantumò splendidamente i codici narrativi della normale, convenzionale visione cinematografica, imponendosi fin da subito come fenomeno di culto e attestandosi appunto al primo posto assoluto nel gradimento dell’intellighenzia inerente la Settima Arte più elevata e magicamente infrangibile?

Sì, Mulholland Drive è un capolavoro intoccabile che si perpetua nel tempo infinitamente, acquisendo se possibile ancor più fascino e morbosa, irresistibile attrattiva nonostante l’accavallarsi folle e mutante della nostra società, nonostante il decadere patetico o esuberante delle mode e l’avanzare di nuovi stili e perfino stilemi di vita. Un film monumentale per il quale la definizione stessa soltanto di film poco si addice alla sua fulgida, chiaroveggente, oserei dire, illuminante magnificenza.

Un film della durata di due ore e 27 minuti, scritto e diretto da David Lynch, un regista che non ha bisogno di presentazioni, la vivente incarnazione cineastica della magia fattasi carne e sangue liquidissimo del Cinema più viscerale, della sua svettante poesia incommensurabile.

Mulholland Drive, nato come pilota di una serie televisiva della ABC, poi boicottata e cassata, un pilot revocato, depennato e oscurato che Lynch ha fatto risorgere, ricreandolo, smussandolo, plasmandolo nella fervida mente sua smaniosa, ostinatamente maliarda e impavida, nella folle e profetica caparbietà inaudita di voler trasformarne il finale sospeso in un’opera compiuta vera e propria. Anzi, dando una chiusura onirica al finale che non c’era, a ciò che doveva essere un proseguimento ideale de I segreti di Twin Peaks, modellando un pilota troppo ostico e incomprensibile per poter essere annesso alle logiche schiaccianti della tv e adattandolo quindi all’onirismo suo più liricamente, inafferrabilmente magmatico.

Un film cabalistico, addirittura cannibalistico delle nostre emozioni, uno spellante, mirabolante viaggio nel subconscio e anche nell’inconscia nostra innatistica, dannata, matta voglia infermabile e capricciosa, umanissima di voler incantatoriamente tornare indietro nella memoria inaccessibile dei nostri sogni perduti.

Mulholland Drive, un film che riscrive il noir, ne stabilisce una nuova concezione, smonta narrativamente ogni plausibile, verosimigliante filo coerentemente narrativo per assurgere semplicemente, enormemente a delirio e a incubo, a tenebrosa, inquietante e sussultante immersione nei meandri dei nostri desideri sopiti, acquietati e taciuti dalla coscienza, un salto nel buio accecante dei miraggi e delle cerebrali rimozioni incredibilmente risvegliateci con la sola levità immane della straordinarietà più immaginifica.

Siamo a Los Angeles, la Mecca del Cinema, la fabbrica dei sogni, appunto.

Una donna (Laura Harring, accreditata come Laura Elena Harring), della quale non ci viene rivelato il nome, è miracolosamente sopravvissuta a un incidente mortale. È piena notte. Si riprende dallo shock e, indolenzita, abbacchiata si dirige verso la città. Si addormenta ancora per strada. Al mattino, alle prime luci fioche dell’alba, sgattaiola all’interno di una villa disabitata.

Sul luogo, giunge Betty (Naomi Watts), aspirante attrice che sta cercando fortuna a Hollywood. La quale va ad alloggiare nella casa di sua zia. È proprio qui che s’è nascosta e ha trovato rifugio la donna misteriosa senz’identità.

Le due donne, all’inizio reciprocamente stupite da questo lor vicendevole, bizzarro incontro, fanno subito amicizia.

Intanto, seguiamo in parallelo la stramba carriera di un regista stralunato, Adam Kesher (Justin Theroux).

Per via di sinistre, mafiose macchinazioni, Kesher si vede costretto ad assoldare come protagonista del suo film una certa Camilla Rhodes, dopo aver ricevuto severe ammonizioni e rigide istruzioni da parte di un cowboy.

Betsy, nel frattempo, continua a illudersi e a sognare…

Ma per Betsy ciò è solo un abbaglio che dura infinitesimamente poco, un’illusione che svanisce repentinamente e impercettibilmente come l’incalcolabile istante che separa la fase diurna da quella REM.

C’è una scatola, forse lo scrigno di colore blu night delle strade perdute. Le due donne ora sono innamorate l’una dell’altra. Aprono tale scatola. Al che Betsy diventa Diane Selwyn, sì, il nome reale che questa donna dei turgidi, focosi misteri, questa femme fatale rossa-corvina, interpretata dalla bellissima Harring, ha all’anagrafe, o forse no, il nome che aveva dimenticato in quella cupa notte ombrosa, una donna che dapprima aveva scelto di affibbiarsi l’estemporaneo, sognante Rita dopo aver visto in bagno il poster di Gilda con l’intramontabile, mitica Rita Hayworth.

E Diane/Rita allora si trasforma in Camilla Rhodes ed è adesso la musa ispiratrice di Kesher.

Mentre qui, a Los Angeles, può succedere di tutto. E la strampalataggine rappresenta l’ordinarietà della stranezza stessa della vita nella sua impalpabile, farsesca e romantica assurdità.

Nella cornice lunare e sfavillante d’un tempo senza domani nel quale squilla esoterica, sopra una collina cespugliosa come in una favola con la strega cattiva, ambigua o solo cupidamente dolcissima, la sibilante e melliflua la colonna sonora ipnotica di Angelo Badalamenti. E la stupenda Harring occhieggia ammiccante, maliziosa e diabolica.

Siamo tutti figli delle stelle interminabilmente splendenti nel fiorir iridescente delle profondità di queste nostre vite orribili, irrazionali e suadenti.

Forse non ci siamo mai destati dalla bellezza enorme delle nostre paure infantili, dal potentissimo, eterno, incurabile trauma d’incarnare noi stessi il bagliore fugace delle vanità nostre smarrite, siamo meteore luccicanti nel boato delle nostre ombre, pulsioni e aspirazioni del cuore battente, cardiache creature dall’anima perversamente svenuta.

Questo è Mulholland Drive. Non è un trattato criptico di psicologia applicata alla celluloide e non tiriamo dunque in ballo teorie psicanalitico-interpretative sull’Es, sull’Io e sul Super-Io.

Questo è Cinema abissale. E Il Cinema immenso non necessita di essere capito, analizzato, parcellizzato nella chiarezza esplicativa.

Laddove probabilmente Lost Highway peccava di troppo compiaciuto nonsenseMulholland Drive trionfa nella perfezione entusiasmante dell’aver inscientemente azzeccato la meravigliosa illogicità stravagante e armonicamente paradossale della vita.

Mulholland Drive è l’immortalata sommità della vita nell’essere Cinema di smisurata purezza.

Quindi, Mulholland Drive resta inamovibilmente il film più bello del nuovo secolo.

Fotografia di Peter Deming.

Avevamo già visto questo capolavoro altrove, in tanti fotogrammi d’innumerevoli film del passato ma mai c’eravamo così estasiasti per qualcosa di simile. Ci era sfuggito…

Mulholland Drive, un film mai visto.

About Stefano Falotico

Scrittore di numerosissimi romanzi di narrativa, poesia e saggistica, è un cinefilo che non si fa mancare nulla alla sua fame per il Cinema, scrutatore soprattutto a raggi x delle migliori news provenienti da Hollywood e dintorni.

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