Oggi recensiamo quello che, a mio avviso, è l’indubbio capolavoro di Roland Joffé, Mission (The Mission), film della durata di due ore e cinque minuti, Palma d’oro al Festival di Cannes, uscito sui nostri grandi schermi il 10 Ottobre del 1986 e interpretato da due attori premio Oscar portentosi che non hanno, certo, bisogno di presentazioni, ovvero Robert De Niro e Jeremy Irons.
Un film che, all’epoca, stupì ed entusiasmò pubblico e Critica, anche quella più intransigente ma che, stranamente, negli ultimi anni la stessa Critica, che a quei tempi appunto tanto l’osannò, non ha trattato coi guanti. Ridimensionandolo assai.
Insomma, Mission è il grande film che giustamente fu infatti candidato a ben sette Academy Award, vincendo meritatissimamente la dorata, ambitissima statuetta per l’abissale fotografia di Chris Menges, oppure è semplicemente un polpettone sopravvalutato dalle tantissime ambizioni eccessivamente enfatizzate in una messinscena altamente spettacolare ma sterilmente vacua e forse ridondante, tanto ingannevolmente roboante e invero tronfia e ampollosa, così bellamente e furbescamente manieristica da indurre chiunque a farsene erroneamente abbagliare? Magnificandolo più dei suoi reali meriti?
No, Mission è un capolavoro. Non si discute. Un film che capolavoro lo è proprio in virtù del suo sapore autentico, potente, figlio di un’epoca che ci par già melodicamente lontanissima, lustrato nell’antichità profumata d’una grandeur sopraffina, altissima nell’accezione migliore della sua ostentata, magniloquente grandiosità.
Esistono film irritanti per la sfacciata, insistente imponenza della propria, oserei dire, liturgica solennità.
Altri, come Mission, il cui valore consiste proprio nella loro ostentata, barocca prestigiosità.
È la storia di due uomini agli antipodi che s’immolano al Verbo di Cristo e alla fede gesuita pur di evangelizzare i selvaggi e salvarli dagli sciacallaggi dei predatori.
È soprattutto la storia della conversione, commovente e liricamente umanissima, di un uomo, Rodrigo Mendoza (un De Niro magnetico), un ex terribile cacciatore di schiavi, temuto da tutti, un signorotto minaccioso e crudele che ha ucciso suo fratello Felipe (Aidan Quinn) per gelosia. E da allora, per redimersi dalla scelleratezza del suo fratricidio immondo, espia la sua indelebile colpa come Sisifo, aderendo alla parola del Signore da missionario in cerca di pace e salvazione eterna. Emblematica e sin troppo chiaramente metaforica, in tal senso, la scena in cui Mendoza, schiacciato da un fardello pesantissimo, scala la montagna e, arrivato alla vetta, si lascia cadere giù per risalirla infinitamente, di nuovo daccapo, nel suo autoinfliggersi una punizione suppliziante fino a lacrimare, esausto, abbracciato agl’indios, in una catarsi tragicamente toccante e luccicante di poesia elevata e purissima. Cristallina come le schiumose, fragorose cascate magnifiche dell’Iguazú.
Compagno della sua redenzione è Padre Gabriel (Irons), un uomo che forgerà e lubrificherà di nuova, suadente, raggiante speranza l’animo inconsolabilmente affranto di Mendoza.
Entrambi però, travolti dall’irrimediabile fato mortale d’una Storia drammaticamente empia e barbarica, periranno sotto i colpi fatali d’una guerra forse già persa in partenza.
Ma assieme, da fratelli di Dio, sono morti per la loro suprema, nobile e sacra missione…
Sceneggiatura di Robert Bolt, musiche, anche se fin troppo abusate, d’un Ennio Morricone leggendario e antologico. Una colonna sonora indimenticabile, un classico immortale.
Due attori diversissimi fra loro per stile recitativo, qui al massimo del loro abbacinante, coinvolgente carisma a pelle. Eh sì. De Niro, prima sadico e cattivissimo, quindi pacato, ieratico, biblicamente, potrei dire “cristificato” (permettetemi appositamente questo neologismo qui da me coniato per meglio rendere l’idea della sua aderentissima incarnazione a martire in remissione di tutte le colpe, soprattutto delle sue), innalzatosi virtuosamente oltre i suoi ignobili, imperdonabili peccati ad ascetica, divina consacrazione innanzitutto della sua immarcescibile, indistruttibile, tenace riagguantata forza spirituale. E uno splendido Irons, padre che accoglie i peccatori nel grembo della sua casa, allevia le loro cicatrici, disinfetta i loro dolori e ammaestra alla bellezza del creato con la musica lievissima del suo flauto magico…
Che film.
Non ho altro da aggiungere.