Ebbene, oggi per la nostra consueta rubrica Racconti di Cinema, vi parleremo di un film che, nonostante la presenza altisonante di Robert De Niro e del compianto Philip Seymour Hoffman, a tutt’oggi è stranamente misconosciuto ai più, ovvero Flawless, scritto, diretto e prodotto dal controverso e altalenante Joel Schumacher.
Flawless uscì nelle nostre sale il 16 Febbraio del 2001 e ricevette immediatamente sonore, pesantissime stroncature. Tant’è che possiamo, col senno di poi, considerarlo uno dei primi, veri passi falsi nella carriera di De Niro, anzi, l’apripista di tutta una serie di pellicole alimentari, fra commedie di scarso piglio e thrillerini alquanto discutibili, successivamente da lui interpretate, con le quali dissennatamente disseminò e leggermente impataccò quella che, sino a quel momento, era stata una filmografia pressoché immacolata, altissima e praticamente intoccabile.
Osiamo dire la prima fesseria a iniziazione, probabilmente involontaria, di un’indubbia débâcle artistica quasi scioccante.
Sì, mentre il suo mentore Martin Scorsese si trovava nella Big Apple a filmare il suo stupendo Al di là della vita, una sorta di donchisciottesca continuazione ideale di Taxi Driver, De Niro, assieme a Schumacher, girò contemporaneamente, sempre a New York, questo pasticciato, inconcludente Flawless. Film che, a differenza del significato del suo titolo e dell’italiano sottotitolo appioppatogli (senza difetti), è risultato tutt’altro che perfetto.
Flawless non è affatto un grande film e, malgrado l’impegno profuso dai suoi due attori protagonisti, un impeccabile, sorprendente Philip Seymour Hoffman, e lo stesso De Niro, appunto, qui alle prese con una camaleontica prova figlia dei suoi mimetici istrionismi espressivi, forse maggiormente rimarchevoli, già da lui rivelati in Risvegli e nella sua infinita galleria di maschere partorite dai suoi lodevolissimi tour de force da trasformista impari, sebbene i critici statunitensi, adesso, l’abbiano in parte rivalutato, riconoscendone pregi che, ai tempi della sua uscita, sfuggirono loro a causa di troppa severa, superficialità esegetica, fu una pellicola che andò malissimo anche al botteghino.
Detto ciò, parimenti all’odierna Critica americana che, rivedendolo, l’ha parzialmente riscoperto, valorizzandone alcuni aspetti importanti, anche noi ci sentiamo platealmente di affermare che, probabilmente, l’intellighenzia dell’epoca gli fu troppo ingiustamente impietosa.
Cioè, a conti fatti, trascorso un ventennio dalla sua release, dobbiamo ammettere e constatare che, sì, Flawless certamente non verrà ricordato come uno dei migliori film con protagonista De Niro, non verrà nemmeno menzionato come una delle pellicole più riuscite di Schumacher, altresì è però degno di una seconda (re)visione.
Vi spiegheremo perché.
Innanzitutto, partiamo dalla trama:
Walt Koontz (De Niro) è una guardia di sicurezza, un uomo ultraconservatore e profondamente maschilista. Al quale, nel tempo libero, piace andare a ballare, corteggiando la sua donna prediletta, Tia (Daphne Rubin-Vega).
Durante una notte, nel tentativo di fermare alcuni malviventi che hanno fatto irruzione nell’appartamento di un condomino del suo palazzo, la drag queen Rusty (Seymour Hoffman), Walt viene colto da un ictus fulminante. Si salva per miracolo ma ne esce comunque gravemente danneggiato. Ha infatti difficoltà a parlare, si esprime attraverso incomprensibili mugugni e, giocoforza, è costretto a seguire una cura riabilitativa assai bizzarra, cioè prendere lezioni di canto nientepopodimeno che da Rusty, la persona che simboleggia tutto ciò verso cui lui è da sempre stato intollerante per colpa dei suoi radicati, apparentemente inestirpabili pregiudizi sessisti.
Inizialmente, il rapporto fra Walt e Rusty presenta non poche complicazioni e i due, ideologicamente e caratterialmente agli antipodi, litigano tra loro furiosamente.
Col tempo però le loro rispettive acredini si smorzano e, alla fine, diventano perfino fidati, solidali amici.
Un film dunque all’insegna del rispetto, dell’umana comprensione del prossimo nostro all’apparenza diverso da noi, una specie di Qualcosa è cambiato ove, al posto Greg Kinnear, abbiamo un co-protagonista en travesti invero più emozionalmente simile e umanamente, insospettabilmente affine al cosiddetto straight man inappuntabile e insopportabilmente tronfio.
Ecco, Joel Schumacher è sempre stato un regista dotato di personalità forte anche se si fa perennemente fatica a definirlo un autore tout–court.
Un regista che, esclusa la dimenticabilissima, atrocemente sbagliata sua incursione nel cinecomic, essendo stato lui dietro la macchina da presa per gli impresentabili Batman Forever e Batman & Robin, in tutta franchezza non ha mai neanche mai filmato un film davvero degno di mirabile nota, tranne uno, Ragazzi perduti. Ottima pellicola per cui vive tuttora di prestigiosa rendita. Già, ma parliamo di un film del 1987… Da allora, non si è più ripetuto a questi livelli.
Joel Schumacher ha infatti costellato la sua filmografia di tutta una serie di film, soprattutto quelli dei primi esordi, dalle robuste ambizioni, persino dalle notevoli, geniali intuizioni, basti pensare a Linea mortale oppure a Un giorno di ordinaria follia, film tematicamente assai affascinanti, certo, senza però mai riuscire a dare concreta corposità, armoniosità e sobrio equilibrio formale alle storie da lui narrateci.
Perdendosi in svolazzi effettistici molto pacchiani, affastellando le sue pellicole di esagerate riprese modaiole, standardizzandole verso una fastidiosa estetica da videoclip.
È sempre stato questo il suo limite. Ripetiamo, quello di non aver mai saputo misurarsi, oscillando tra blockbuster camuffati da art film e pellicole semplicemente artificiose e insulse.
Flawless non fa eccezione. Uno strano oggetto che non si sa come prendere. È una commedia agrodolce sull’amicizia, un’elogiativa celebrazione farsesca dei quotidiani valori semplici dell’esistenza, un’intimistica pochade senza capo né coda, oppure addirittura un noir travestito da inno al burlesque?
Sottolineato ciò, Flawless però si lascia comunque guardare per la prova gigionesca, malgrado a tratti troppo caricata di De Niro, ma soprattutto per la contagiosa verve autoironica di un Seymour Hoffman molto in palla.
E per la superba fotografia di Declan Quinn (Via da Las Vegas) dai suadenti contrasti cromatici bellamente avvolgenti, caldi e maliardi.
Dunque, non ci sentiamo di bocciarlo appieno.
Anzi…