Sinistro e dolente, Pelican Blood convince a metà, scoperchiando tematiche e questioni di grande rilevanza che però si rivela inadatto ad affrontare, spiegare e narrare. La nostra recensione del film d’apertura della sezione Orizzonti della 76ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia con protagonista Nina Hoss.
La quarantacinquenne Wiebke (Nina Hoss) vive con la figlia adottiva Nicolina in un allevamento di cavalli. Dopo molti anni di attesa, può finalmente adottare un’altra bambina, la piccola Raya, per dare a Nicolina la sorellina che ha sempre voluto. La convivenza però, armoniosa nelle prime settimane, diventerà presto turbolenta a causa del carattere aggressivo e selvaggio della bambina.

Cosa funziona in Pelican Blood
Pelican Blood è l’horror che non ti aspetti. Dramma familiare gelido senza famiglia, che scoperchia fin da subito la doppia faccia dell’elemento estraneo subentrante, il film fa proprio un immaginario territoriale a stelle e strisce (il ranch) lontanissimo dalla propria provenienza geografica (Germania/Bulgaria) e vi adagia sopra un racconto cupo e tesissimo, a tratti disturbante.

Perché non guardare Pelican Blood
Un film che si beve in un sorso, fino alla fine, ma dove proprio l’epilogo è obiettivo sbiadito. Depista e confonde, affastella e accumula, cita e ammicca (“L’esorcista”, “Omen”), ma rimane vago nei propri intenti smarrendosi nelle proprie molteplici piste.
Un exploit in crescendo, un “Babadook” raggelato, che rifugge la complicità empatica dello spettatore e sfida il ridicolo e l’assurdo. Se il terrore deriva da ciò che non si vede, può ben definirsi un film terrificante, per lo meno in molti passaggi, ma finisce per crollare sotto il peso della propria irrisolutezza, non prendendo mai una vera e propria posizione.