Ebbene, si è generata un po’ di confusione riguardante il reale numero di episodi della fiction RAI Il nome della rosa di Giacomo Battiato con John Turturro.
Insomma, questa serie di quanti episodi consta? Sono quattro o invece otto?
Ora, la RAI ha deciso di programmarla televisivamente in quattro episodi, appunto, mentre su Rai Play, in streaming, dopo la messa in onda in prima serata, è stata riversata una versione spezzettata e scomposta di episodi più stringati della durata, al massimo, di cinquanta minuti.
Cioè, sostanzialmente gli episodi sono quattro complessivamente alla televisione, in formato omogeneizzato, otto su Rai Play in versione, diciamo, suddivisa e anche “audiovisiva” dilatata in maniera internettiana.
Detto ciò, dopo la nostra recensione dei primi segmenti, abbiamo visto anche gli altri due sin ad ora trasmessi.
Leggi la recensione dei filmE dobbiamo ammettere, ricredendoci in parte su quanto parzialmente, negativamente espresso dopo le nostre affrettate impressioni a caldo, appunto, dei due frammenti di partenza, che questa versione de Il nome della rosa ci sta maggiormente convincendo. Finalmente, dopo numerosi svolazzi pindarici che, a prima vista, c’erano apparsi ingiustificati e fuori tema, il quadro d’insieme e il mosaico allestito da Battiato stanno assumendo più definita finitezza.
Vale a dire che Battiato non si è limitato semplicemente a trasporre il celeberrimo romanzo di Umberto Eco in maniera striminzita, per quanto suggestiva e affascinante, così come aveva realizzato Jean-Jacques Annaud per la sua famosa pellicola omonima col grande Sean Connery, bensì, sobbarcandosi molti rischi e inevitabilmente azzardando così tanto da poter suscitare forti critiche severe, puntualmente avvenute, ha trasformato il bestseller di Eco in una vera e propria avventura televisiva nella sua accezione più universale. Con tutti i pregi e i difetti consequenzialmente annessi.
Rispettando, sì, formalmente i canoni RAI che, come sappiamo, prediligono storie a poderosa tematica religiosa, spesso pedanti e noiose, romanzate ed elevate, per meglio dire, adattate a magnificazione del medio gusto nazional-popolare, ma anche inserendole in un contesto, stavolta, a più ampio respiro nient’affatto trascurabile.
Cosicché il Guglielmo da Baskerville, incarnato da John Turturro, non diviene soltanto un frate francescano in cerca di verità e giustizia fra i misteri arcani di un’abbazia sconsacrata da efferati delitti macabri, bensì una sorta di ambiguo investigatore privato da detection.
Una specie di Hercule Poirot sotto la tonaca di un abito monastico.
Salvatore/Stefano Fresi, a differenza della versione di Annaud, nella quale lo spazio riservato al Salvatore personificato da Ron Perlman era assai ridotto e quasi macchiettistico, diventa qui un character abbastanza centrale nella narrazione, di una corposa e toccante rilevanza e, già in questi episodi 3 e 4, viene largamente accennato visivamente, con un lungo flashback, al suo doloroso trascorso di umiliazioni. Un passato triste nel quale, per via della sua repellente deformità fisica, veniva usato a mo’ di jolly per osceni, derisori spettacoli di corte in cui i ricchi signorotti s’allettavano nello schernirlo. Una specie di elephant man e fenomeno da baraccone liberato poi dalla schiavitù ingiusta di una vita angariata e vilipesa grazie all’irruzione nel covo dei malvagi, quasi da maschera della morte rossa alla Edgar Allan Poe, di Dolcino/Alessio Boni.
Che, in questa versione appunto di Battiato, ci viene descritto come una specie di furioso Robin Hood di turno, come un prode, rabbioso condottiero senza macchia e senza paura, come un cheguevariano capitano di ventura immolatosi a una missione nobile e salvifica, cioè quella di riscattare gli oppressi e i deboli dall’egemonia crudele dei loro potenti torturatori.
Acquista anche una più precisa personalità l’Adso da Melk di Damian Hardung. In fin dei conti, con la sua ingenua dolcezza e la sua infinita purezza, possiamo ora dire, malgrado quanto invece avevamo affermato inizialmente, che non fa rimpiangere più di tanto l’impavida, acerba inquietudine adolescenziale di Christian Slater.
Addirittura, quello che nel romanzo e nel film di Annaud era soltanto un fuggevole, per quanto cruciale, rapporto sessuale fortuito col personaggio seducente, ammaliatore e peccaminoso della ragazza senza nome, selvaggia e cupidamente, irresistibilmente tentatrice, qui sta assumendo i tratti di una delicata, poetica storia d’amore iniziatica non tanto protesa alla scoperta del sesso e alla perdita della verginità (la “scabrosa” scena dello sverginamento di Adso con la ragazza ancora non ci è stata mostrata e chissà se la vedremo), bensì liricamente slanciata verso una viva, amplificata parentesi determinante per sviluppare una commovente ode virtuosa, incandescente e prodigiosa nei riguardi di quel sentimento libero e piacevole, romanticissimo dell’amore sanamente creaturale di due giovinezze turbolentemente impaurite dalle loro pudiche, sensibili emozioni.
In questo Il nome della rosa abbiamo molte scene all’aperto, dislocate fuori dal monastero, dirette con robusto piglio dal regista della seconda unità, Fabrizio Bava.
Il Bernardo Gui di Rupert Everett, che ci aveva lasciato alquanto interdetti nei primi due episodi per lo scarso approfondimento psicologico riservatogli e per la fastidiosa, monolitica, scarsa espressività troppo imbalsamata di Everett, adesso possiamo asserire con certezza che è stato meglio cesellato. E perfino la recitazione di Everett stesso ne sta giovando profondamente.
A conti fatti, dunque, Il nome della rosa di Giacomo Battiato non è assolutamente brutto come noi stessi avevamo pensato e supposto.
Inoltre, dobbiamo ammettere che i titoli di testa sono notevoli.