Continua, amici, il nostro viaggio recensorio nei riguardi de Il nome della rosa di Giacomo Battiato con John Turturro e Rupert Everett. Come sapete, trasposizione televisiva della RAI del famosissimo, omonimo capolavoro letterario di Umberto Eco.
Ebbene, dobbiamo essere piuttosto oggettivi. Come già da noi parzialmente espresso nella recensione degli scorsi due episodi, Il nome della rosa, nonostante un inizio farraginoso, spiazzante, per via delle sue apparentemente incomprensibili molte scene all’esterno dell’abbazia che, nel libro di Eco, erano assenti o, perlomeno, delle quali si accennava soltanto velatamente in forma di leggera cronistoria illustrativa per meglio chiarire alcuni aspetti della narrazione, ecco, ora queste serie sta spiccando il volo e sta assumendo una sempre più affascinante, corposa, piacevole finitezza ammaliante.
E, a proposito di finitezza, scusateci per questo nostro scherzetto verbale, parimenti all’opera di Eco e alla versione cinematografica di Jean-Jacques Annaud, assisteremo al devastante incendio nella biblioteca dell’abbazia, nel finis Africae ove, nei suoi recessi insondabili, son celati i segreti più oscuri di questa complottistica storia di frati peccatori?
Vedremo. Intanto nell’episodio cinque, com’era prevedibile, abbiamo potuto gustare la tanto bramata scena di sesso tra lo spaurito novizio Adso da Melk (Damian Hardung) e la ragazza senza nome (Nina Fotaras).
Leggi la recensione degli episodi 1 e 2Un episodio centrale nel libro di Eco a cui lo scrittore aveva dedicato circa dieci pagine di descrizione minuziosa, concentrandosi con poderosa forza espressiva perfino eroticamente suggestiva sull’impavido, rocambolesco, peccaminoso sverginamento di Adso, pagine meravigliosamente tanto romantiche quanto scabrose che, nella versione di Annaud, come ricorderete, divampavano in una furiosa, focosa, turbolenta e scandalosa scena di sesso, oggettivamente molto spinta per l’epoca, tra l’efebico Christian Slater e la selvatica, impudica bellezza immensa della stupenda Valentina Vargas. Una scena di sesso vertiginosa quasi al limite dell’hard che, infatti, nei passaggi televisivi viene puntualmente sforbiciata e censurata.
Qui, a differenza del libro e del film di Annaud, questa scena selvaggia e importantissima, anziché svolgersi all’interno del monastero, è stata ambientata in un bosco fatato. Ove l’amplesso è stato filmato come un incantato, sublime accoppiamento fra due anime innocenti.
Dunque, la ragazza agli occhi di Battiato non è più l’incarnazione del peccato e dei tentatori, diabolici piaceri della lussuria, ma assurge ella stessa a intimidita femmina virginale e graziosa.
Va detto che nel libro e nella pellicola di Annaud, la ragazza aveva appunto pochissimo spazio, sebbene fosse una figura decisiva per l’iniziazione alla vita di Adso, con tutti i suoi annessi e connessi, deflagrati, pericolosi turbamenti sentimentali e carnali. Mentre, ne Il nome della rosa di Battiato, ribadiamo, come avevamo già peraltro sviscerato nella recensione degli episodi 3 e 4, la ragazza non è più soltanto una puttana (sì, questo era) dissoluta e maliarda, bensì simboleggia, angelicata, la venustà florida della giovinezza pura.
Il mostruoso Salvatore, come detto, non possiede più le fattezze scimmiesche di Ron Perlman ma la faccia, deturpata dal trucco, un po’ ridicolo, di Stefano Fresi. E non è affatto un innocuo, incosciente scimunito. Piuttosto un freak dagli ambigui e forse crudeli propositi. Uno storpio Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti con la sua orrida grotta delle torture.
E finalmente abbiamo ammirato il confronto teologico fra Guglielmo da Baskerville (Turturro) e Bernardo Gui (Rupert Everett). Vera spina nel fianco del povero Remigio da Varagine (Fabrizio Bentivoglio).
Il Gui di Annaud era incarnato da F. Murray Abraham. Proprio un cattivo tagliato con l’accetta.
Everett, va ammesso, forse ne ha dato un’interpretazione più sfumata e probabilmente migliore.
Leggi la recensione degli episodi 3 e 4Da colui che ha ispirato il celebre Dylan Dog, che è stato appunto l’investigatore dell’incubo, seppur con un nome diverso, Francesco, in Dellamorte Dellamore di Michele Soavi su sceneggiatura dello stesso ideatore del più venduto fumetto della Bonelli, ovvero Tiziano Sclavi, non ci saremmo mai aspettati una performance tanto agli antipodi rispetto ai suoi oramai conclamati, brillanti ruoli da dichiarata icona gay bella e tenebrosa. Con queste occhiaie rugose e il cranio pelato, col suo sguardo da vigile, stizzito finto dormiglione invero torvamente furbissimo e maligno, Everett ci ha positivamente sorpreso.
Sì, dobbiamo essere sinceri e complimentarci con lui. Col suo cupo aplomb da bastardo infido, con le sue espressioni da viscido serpentello, è magnetico.
In questo Il nome della rosa, inoltre, pur continuando a essere piuttosto scarsa e impalpabile l’atmosferica componente oscurantistica dell’ambientazione, nevosa, sì, eppur troppe volte patinata e artificiosamente fotografata dalle belle ma eccessivamente colorate immagini di John Conroy, abbiamo appurato che il rapporto fra Guglielmo/Giglielmo e Adso/Hardung è sempre più simile a quello fra Sherlock Holmes e il suo fido, inesperto ma intuitivo, Watson.
A questo punto, nell’attesa di vedere come andrà a finire, l’unica parte davvero debole è rappresentata dal personaggio alquanto insulso di Anna, interpretata da un’antipatica Greta Scarano.
Abbastanza fuori contesto e fuori luogo, onestamente.