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Mindhunter – La recensione dei primi due episodi della Stagione 2

Ebbene, Mindhunter, la serie Netflix ideata da Joe Penhall e basata sull’omonimo romanzo di Mark OlshakerJohn E. Douglas, dal sottotitolo La storia vera del primo cacciatore di serial killer americano, fortemente sostenuta e patrocinata dal grande David Fincher (Fight ClubSevenZodiac), regista peraltro di sette episodi della medesima fra cui i primi due, appunto, anche di questa nuova stagione, ovvero quelli da noi qui disaminati, è tornata in brillantissimo spolvero.

Dal 16 Agosto scorso, infatti, Netflix ha rilasciato l’intera season 2. A differenza però della precedente che constava di dieci episodi, la 2° n’è formata da nove. All’incirca della durata di un’ora ciascuno.

Ecco, la stagione uno, come ricorderanno coloro che la videro e, al pari di noi, largamente l’apprezzarono, finì con l’agente Holden Ford (Jonathan Groff), sconvolto, paonazzo in viso, scioccato e in preda a quello che reputammo un irreprimibile, pericoloso attacca cardiaco. Il quale, dopo esser andato a trovare in ospedale Edmund Kemper (Cameron Britton), il maniaco pluriomicida, ribattezzato tristemente as killer delle studentesse, svenne, crollando a terra in totale stato confusionale, insomma collassò.

L’episodio 2.1 inizia con una scena particolarmente inquietante.

Park City, Kansas: una donna dall’aspetto minuto entra nel suo appartamento. Al che, mentre in sottofondo noi spettatori ascoltiamo il ritmo tonante, ammaliante e perturbante di Every Dream Home a Heartache dei Roxy Music, la donna ode degl’indistinti versi strani provenire dal suo bagno. Fra lo spaurito e l’allarmato, tremando vistosamente, si avvicina alla porta del bagno. Poi, caricandosi di coraggio, la spalanca e, agganciato con una cordicella alla maniglia, trova colui che probabilmente è il suo compagno. Anzi, lo è. Un uomo (Sonny Valicenti) che indossa una maschera grottesca e grandguignolesca. È l’uomo misterioso, dall’identità impalpabile, che avevamo già visto in alcuni segmenti della trascorsa stagione.

Dunque, dopo i titoli di testa, veniamo immersi nella vita privata di Bill Tench (Holt McCallany), alle prese col figlio e la moglie, dunque coi suoi amici durante il suo personale barbecue.

Tench torna al lavoro, diligentemente riprendendo le sue mansioni nell’ufficio-scantinato del seminterrato del Federal Bureau of Investigation. Vale a dire semplicemente l’FBI.

Ove ritroviamo naturalmente, sempre col suo fine tailleur elegantissimo, l’altezzosa dottoressa Wendy Carr (Anna Torv) e il loro imbranato collega Gregg Smith (Joe Tuttle).

Holden Ford invece è ancora in ospedale. Dopo la convalescenza e il potentissimo shock da lui subito, sta per essere finalmente dimesso da ogni cura medica.

Apprendiamo però che il suo grave malore non è stato dovuto a un infarto, bensì a un normalissimo, assai meno preoccupante attacco di panico.

Intanto, il capo della loro unità, l’incorruttibile e severo Shepard (Cotter Smith), sta andando in pensione. Forse contro la sua volontà.

Nel secondo episodio, a farla da padrone pressoché assoluto della scena è al solito Bill Tench e il suo interprete, Holt McCallany, dimostrandosi puntualmente bravissimo, fa sfoggio appunto della sua forte e carismatica presenza scenica in più di un’occasione.

Sempre maggiore spazio viene fornito inoltre a Wendy Carr e dobbiamo ammettere che Anna Torv se, nella prima stagione, aveva delineato il suo personaggio in maniera forse leggermente distaccata, indossando la maschera della donna, sì, arcigna dal carattere infrangibile e dall’inflessibile personalità tosta e decisa, eppure algida e indubbiamente un po’ antipatica, in questa stagione due di Mindhunter si esibisce al massimo del suo ambiguo, seducente sex appeal, sfoderando una classe, anche interpretativa, di suadente, leggiadro, irresistibile fascino robustamente erotico.

Non risalta invece Jonathan Groff, schiacciato da una sceneggiatura che, sino a questo momento, gli regala pochissimi momenti centrali, relegandolo paradossalmente quasi a comprimario ma siamo sicuri che, nei prossimi episodi, gli verrà concessa maggiore incisività

Nel secondo episodio, veniamo subito a contatto con uno dei serial killer più iconici ed epocali della storia, vale a dire il famigerato, terribile e insanabilmente disturbato David Berkowitz (Oliver Cooper), ovvero nientepopodimeno che il cosiddetto Figlio di Sam.

Mindhunter 2 si dimostra compatta, lineare. Ma già alquanto ripetitiva. I due agenti-detective, infatti, non stanno cercando di acchiappare i mostri, bensì tentano, come sappiamo, d’allestire ritratti psicologici al fine di poter aiutare le unità specializzate a individuare con anticipo le mosse degli schedati, indagati od eventuali pazzi in giro per le strade.

In quest’affascinante assunto, consiste il fascino della serie ma allo stesso tempo risiede il suo punto debole. Ovvero, nella forza della sua nevralgica, coriacea, focale tematica protratta sino allo sfinimento, lo spettatore a lungo andare potrebbe arrivare all’emotivo svilimento, perdendo di vista la secca acquosità delle immagini e le atmosferiche, superbe riprese della serie stessa, soffusamente innervata nella tenebrosità della sua sibillina malia.

Leggi la recensione del finale della prima stagione

Mindhunter 2 diviene così un’attraente cantilena d’interrogatori e interviste che si riverberano e replicano all’infinito secondo lo schema procedurale della nuova polizia, per meglio dire, pulizia della mente.

Ma nella sua organica, programmatica metodicità stilistica e contenutistica, ribadiamolo, tedierà e stancherà non poco, statene certi, lo spettatore medio che, anziché lasciarsi sedurre dalla soavità di tal uniforme intreccio austero, col passare degli episodi potrebbe interromperne la visione, dandosi ad altro, ritenuto a suo avviso più catartico e soddisfacente.

About Stefano Falotico

Scrittore di numerosissimi romanzi di narrativa, poesia e saggistica, è un cinefilo che non si fa mancare nulla alla sua fame per il Cinema, scrutatore soprattutto a raggi x delle migliori news provenienti da Hollywood e dintorni.

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