Esce in un pugno di cinema il primo lungometraggio diretto dalla regista Sandra Vannucchi. La Fuga si è già fatto vedere per vari festival europei, mietendo diversi consensi: lo porta in sala Lo Scrittoio.
Non si può dire che Sandra Vannucchi, per il suo debutto nel lungometraggio, abbia puntato particolarmente in alto, ma La Fuga – Girl in Flight è un film che si difende. Approcciandosi ai più consueti stilemi a cui le opere prime italiane ci hanno abituato negli ultimi due decenni (cinema-verità di periferie para-neorealista), la regista dimostra però un certo coraggio nello smarcarsi da una forma di racconto abusata, virando verso modelli letterari non indifferenti. La Fuga (ora in sala dopo una lunga gavetta festivaliera) parla sì di giovani dispersi in periferie urbane “depresse” e pedinati da inquadrature strette, ma lo fa attingendo all’importante topos di formazione del “ragazzino solo a spasso nella metropoli”. Una forma di bildungsroman che ha radici importanti, in letteratura (Salinger, Twain, ovviamente Dickens) come al cinema (Kiarostami e il seminale Dov’è La Casa Del Mio Amico). Vannucchi lo sa, e con lo sguardo rivolto anche ad episodi del proprio vissuto, cerca un racconto classico, quasi mitico. Qualcosa di interessante ne esce.
La Fuga è quella della piccola Silvia (Lisa Ruth Andreozzi), undicenne pistoiese in silenzioso conflitto con i genitori. A casa è un dramma: mamma (Donatella Finocchiaro) soffre di depressione cronica e passa le giornate a letto; papà (Filippo Nigro) non comprende e non accetta la malattia della moglie, e ovviamente non ha tempo per la bambina. Silvia prenderà in mano la situazione, organizzandosi in segreto una solitaria fuga a Roma da tempo sognata. Uscita da scuola, prenderà il treno e partirà da sola alla volta della metropoli. Lì, verrà “adottata” da Emina (Madellena Halilovic), coetanea rom, che la introdurrà nel suo mondo marginale fatto di elemosina e furti. Nei pochi giorni della sua fuga, Silvia sperimenterà la vita in un universo differente, e i suoi genitori, stravolti dallo shock, saranno costretti ad emergere dalla rispettiva apatia.
Cosa funziona in La Fuga
Ci sono tanti, forse addirittura troppi film dentro La Fuga. La regista sa cogliere l’universalità del tema, e dunque spreme il massimo della densità tematica dalla piccola, eterna, storia di una fuga infantile. C’è lo spaesamento della giovanissima provinciale nel dedalo urbano della Capitale; c’è l’incontro-scorto tra la piccola borghese e la piccola sottoproletaria – nonché quello collettivo tra rom e gagè; c’è la vita degli “esclusi” nell’Italia dei rigurgiti fascio-razzisti, e la sorellanza tra due giovani protagoniste; c’è il rapporto genitoriale e in particolare madre-figlia, distrutto e da ricostruire; e c’è ovviamente la depressione, raccontata con scene crudissime e sopra le righe, forse un po’ fuori fuoco rispetto alla delicatezza del film. In realtà, La Fuga decide in fretta di relegare i due adulti patrocinanti a scene marginali, concentrandosi interamente sul viaggio in città di Silvia. E’ la scelta migliore.
Nella dimensione di film “per ragazzi”, La Fuga trova una certa ragion d’essere. Vannucchi imposta il film a misura di ragazzino, eliminando più o meno ogni riferimento alle dimensioni più dure della realtà rappresentata (violenza e sessualità assenti). D’altronde, di film sulla vita dei giovani emarginati nella grande città la filmografia italiana recente è piena, al punto che raramente lavori del genere riescono ad imporsi. Uno sguardo così piccolo, preadolescente, è qualcosa di diverso. E se la rappresentazione della vita nel microcosmo rom è tutto sommato un bozzetto all’acqua di rose (imparagonabile ad A Ciambra di Jonas Carpignano, punto di confronto obbligatorio), la scelta dei volti fa in questo caso metà del lavoro: le protagoniste sono perfette e credibili, e per proprietà transitiva lo diventa la loro storia.
Perché non guardare La Fuga
Se il comparto visivo e scenografico di La Fuga basta a convincere, quello fiction delegato a veicolare la storia è carente. I dialoghi dei personaggi, nessuno escluso, sono tremendi, artefatti come non mai e in nessuna occasione credibili come la messa in scena richiederebbe (dalla depressione teatrale della Finocchiaro alle improbabili battute dei bambini). Quanto di buono c’è in La Fuga non viene certo dalla sceneggiatura. Che ha anche il difetto non indifferente del non saper prendere una direzione: la pluralità di spunti è un bene, ma se la maggior parte di questi vengono malamente relegati sullo sfondo (gli inguardabili fascisti che puntellano le scene, lo scontro di civiltà più suggerito che rappresentato) rimane più frustrazione che altro. E’ quasi un film per bambini, centrato sulle età delle due protagoniste, e sembra volontariamente tagliare fuori ciò che un’ipotetica Silvia non riuscirebbe a capire.
La Fuga è un film piccolissimo, violentemente anti-estetizzante (più grezzo ancora di Giovannesi, De Angelis dello stesso Carpignano) e scritto con toni troppo ingenui financo per un teen movie. Ma la storia è forte, le facce sono quelle giuste e l’intento pure: iperrealismo “di strada” e romanzo di formazione in piccolo. Niente male.
La Fuga è al cinema dal 7 marzo distribuito da Lo Scrittoio