Ebbene, oggi recensiamo Hands of Stone, un film inspiegabilmente mai arrivato in Italia al cinema. Introvabile perfino in Blu-ray e DVD ma disponibile sottotitolato in italiano su Google Play/YouTube.
Primo biopic pugilistico-cinematografico sul leggendario fighter panamense Roberto Durán, incentrato sulla sua funambolica scalata da boxeur unanimemente considerato fra i migliori pesi leggeri di tutti i tempi e soprannominato appunto hands of stone (mani di pietra) per via della potenza granitica dei suoi letali pugni sul ring.
Scritto e diretto dal venezuelano Jonathan Jakubowicz, il regista dell’interessante Sequestro lampo.
Interpretato da Édgar Ramírez nei panni del protagonista, da Robert De Niro nelle vesti del suo famoso coach Ray Arcel e da Ana de Armas nel ruolo della sua storica e ancora attuale moglie Felicidad Iglesias.
Hands of Stone è stato presentato fuori concorso al Festival di Cannes del 2016. Come proiezione omaggio alla carriera di Robert De Niro, al cospetto di Harwey Weinstein, uno dei principali produttori della pellicola prima, come sappiamo, della sua vergognosa rovina dovuta agli oramai tristemente celebri suoi chiacchierati, gravosi scandali sessuali, divenuto poi consequenzialmente il responsabile numero uno del vertiginoso fallimento della sua omonima major.
Invero, per esattezza cronachistica, Weinstein, sì, s’è fregiato del titolo di producer, però le riprese della pellicola, finanziata dalla Fuego Films e dalla Epicentral Studios, erano già state completate. Il film aspettava solamente di essere precisamente montato e rimaneggiato in fase post-produttiva.
E Weinstein, proprio al mercato cannense dell’anno precedente, credendo fermamente nelle potenzialità di questo film, ne aveva acquisito la distribuzione per il mercato nordamericano.
Detto ciò, sempre per opportuna correttezza, dobbiamo altresì menzionare il fatto che, secondo il casting originale, al posto di Ramírez e De Niro dovevano esserci Gael García Bernal e Al Pacino.
Hands of Stone, nella sua corposa durata di un’ora e cinquantuno minuti, si concentra in maniera grintosamente corpulenta e pugnace, due aggettivi quanto mai pertinenti visto l’argomento, la vigoria e la possanza fisica di Roberto Durán, sulla sua veloce ascesa a campione mondiale. Soffermandosi sul suo amicale rapporto, quasi da figlio affettuoso, nei confronti del suo spirituale padre putativo e mentore strategico, Ray Arcel.
Rapidissimamente, offre anche una panoramica romantica sulla sua commovente, trasgressiva, tormentata storia d’amore con la sua eterna sposa, Felicidad. E nell’ultima ora vira quasi esclusivamente il suo zoom diegetico, diciamo, sulla sua furibonda e al contempo poi rispettosa, acerrima rivalità verso colui che si era dimostrato l’unico sfidante in grado di tenergli testa durante la sua indomabile, stellare carriera, ovvero Sugar Ray Leonard, qui ben incarnato da Usher Raymond, autore anche della bella canzone Champions che echeggia edificante ed elogiativa nei titoli di coda e in alcune scene salienti del film.
Che dire dunque di questa pellicola?
Hands of Stone non è certamente un grande film. Di film sulla boxe e, soprattutto, sulla storia di uomini difficili costretti a lottare fra le corde di una vita complicata e burrascosa, ce ne sono stati e ce ne saranno decisamente di migliori. Pensiamo ovviamente all’epico Rocky e alla sua saga, oppure naturalmente al monumentale Toro scatenato. Proprio con De Niro a rivestire il corpaccione e a indossare i guantoni del micidiale, imbizzarrito e follemente autodistruttivo Jake LaMotta.
Hands of Stone è parecchio agiografico, perfino zuccheroso e iper-romanzato in tantissimi tratti. Tanto da apparire, più che altro, come una fiction striminzita e celebrativa di Roberto Durán da prima serata tv.
La regia di Jakubowicz è comunque pulita, fluida, lineare, classicissima e le scene degli incontri sono girate con indubbia destrezza e mano energica.
Ma il film manca di vivo ardore e pathos coinvolgente.
Lo stesso Édgar Ramírez, in realtà poco somigliante rispetto al più tarchiato e robusto Roberto Durán, nonostante il visibile e lodabile impegno profusovi, malgrado i suoi tratti del viso assai marcati e la sua muscolosità rimarchevole, non è del tutto convincente e marcatamente rilevante. La sua prova difetta infatti d’incisività. Di conseguenza, non si riesce quasi mai a provare pura empatia per il suo personaggio e venir dunque trascinati dalla sua performance.
Allo stesso modo, è del tutto accessoria e inadeguatamente sviluppata, psicologicamente superflua la presenza di Ellen Barkin.
Inoltre, il sub–plot con l’apparizione fulminea ma assolutamente non fulminante di John Turturro as Frankie Carbo, nel quale malamente si vorrebbe accennare al passato un po’ losco e ambiguo di Ray Arcel, è veramente irrisorio.
Rimane la bellezza esuberante e dolcemente conturbante della peperina Ana de Armas.
E Hands of Stone rappresenta, dopo molti anni di appannamento e prestazioni mediocri, il ritorno a un ottimo livello recitativo per De Niro.
Curiosità: Drena De Niro, qui nei panni di Adele, la figlia adottiva e tossicodipendente di Ray Arcel, è veramente la vera figlia adottiva di De Niro.
Durante le riprese, Ana de Armas era ancora legata sentimentalmente a Marc Clotet.
Ma oggi lei e Édgar Ramírez stanno assieme anche nella vita privata. Come oramai abbiamo saputo, avendo letto della loro consolidata relazione sui giornali di gossip,
In fin dei conti, Hands of Stone è un film che si lascia vedere con piacere, è perfino appassionante in alcuni punti ma, sostanzialmente, resta in superficie e si rivela perciò un film scarsamente memorabile.