Ebbene, dopo un’infinita attesa spasmodica, nei prossimi giorni, esattamente giovedì 24 Gennaio, uscirà anche qui in Italia il tanto atteso seguito di Creed, ovvero Creed II, interpretato da Michael B. Jordan, Dolph Lundgren Tessa Thompson, Florian Munteanu e ovviamente lui, Sylvester Stallone.
Perché, come tutti sanno, Creed II altri non è che lo spin–off della saga sul pugile cinematografico più famoso di tutti i tempi, ovvero Rocky Balboa, un mito inossidabile dell’immaginario collettivo.
C’era una volta un giovanissimo attore, forse non particolarmente dotato a livello espressivo che, nonostante numerose particine, nutriva segretamente in cuor suo un sogno incantato. Interpretare un personaggio da lui stesso scritto, sul quale aveva riversato tutto il furore della sua anima da perenne combattente osteggiato da un mondo che, sino a quel momento, gli era stato ostile e non aveva lesinato a emarginarlo, a sferrargli colpi durissimi, infierendo brutale sulla sua scheggiata ma giammai infranta dignità. Un uomo non affrantosi che non voleva arrendersi a una vita piatta e mediocre e, ostinatamente determinato a inseguire appunto la sua gloria dorata, famelicamente agguerrito a eviscerar con furia tutta la sua portentosa grinta violentemente castigata e soffocata dinanzi a una realtà che, cinicamente irriverente, con irruenza l’aveva sempre dissuaso a lasciar perdere ogni speranza senza però mai abbatterlo nell’animo, lottò come un dannato per agguantare la sua notte stellata.
Stallone non era e non è tuttora un tipo, appunto, che va al tappeto facilmente e non è avvezzo a demoralizzarsi. È sempre stato uno sfacciato, a costo di pigliarsi in faccia altri pugni tosti e ben piazzati.
Mai domo, energicamente limpido nel far vibrare scoccante la sua appuntita freccia luminescente, ammantata nel bagliore infuocato del suo cuore battagliero e scalpitante, è stato impavidamente, fieramente pugnace e temerario nello scagliarla in viso ai vili che volevano depredare la sua anima e così derubarlo del suo adamantino, lindissimo sogno infrangibile e ribaldo, splendente e dinamicamente potente.
E alla fine, dopo mille titubanze da parte degli studios, la major MGM accettò la sua apparentemente folle proposta che poteva, di primo acchito, sembrare pazza e sconclusionata, insensata e malata.
Stallone divenne protagonista assoluto della pellicola celeberrima firmata da John G. Avildsen da lui stesso appassionatamente scritta con sanguinolenta autenticità spudorata.
E, nella notte degli Oscar, Rocky batté ogni concorrenza più spietata, sconfiggendo addirittura Taxi Driver. Forse quest’ultimo l’Academy Award avrebbe oggettivamente meritato di vincere ma fatto sta, e questo la sua leggenda narra, che Rocky fu eletto in quell’anno, il ‘76, assoluto vincitore di tale stupenda competizione.
Rocky, un underdog. Uno che vive di sue alterità emozionali e non passa le sue giornate così, cioè nell’eclissi perpetua della sua irremovibilità caratteriale, in quanto non possedendo nessun talento e dunque, mettendosi mestamente il cuor in pace, rassegnatamente ha dato le dimissioni da un mondo che insiste violento a martoriarlo. No, vive così perché in fondo gli piace da matti essere un perdente, incarnare l’uomo dal cuore talmente grande che non può barattarlo per un’effimera esistenza spogliata del suo intimo, furibondo, forse chimerico, utopistico ardore ciclopico.
Ed è per questo che il primo Rocky è davvero un grande film. Alla fine del combattimento contro Apollo Creed, Rocky perde.
Ma ha resistito sino all’ultimo round con coraggio da leone, è caduto innumerevoli volte e si è alzato prima che l’arbitro decretasse la sua maestosa sconfitta. Lui perde con onore, era già predestinato a perdere, non gli importava sostanzialmente del trionfo ma desiderava sopra ogni cosa accarezzare, anche se fuggevolmente, impalpabilmente per un attimo indistinto e imprendibile, l’odore della sua pelle farsi carne romantica di un sogno volteggiante nella sua superba notte da caduto con gloria.
Ed è per questo che, finita questa decadentistica ma meravigliosa, cinematografica poesia, questa tonitruante magia, Rocky è diventato allora una saga mercantilistica. Che ha compiaciuto furbescamente il pubblico, a sua volta popolarmente sognatore di un campione che ribaltasse ogni sfavorevole pronostico e, contro tutto e tutti, si è eretto a simbolo di una città. Di una nazione, del mondo intero. Con tanto di statua bronzea troneggiante vicino al Philadelphia Museum of Art, nel simboleggiare la resiliente, inscalfibile voglia di vincere dell’idolo della gente che forse non ha avuto e mai avrà la sua seconda chance, assurgendo a paladino di tutte quelle persone sbandate, sbagliate, amareggiate o soltanto troppo fragili che però, parimenti a quest’innalzato totem, incarnano ogni sogno sospirato, perduto, agognato, svanito, sgretolatosi ma ancor valorosamente compatto, erto e intatto nell’immacolata solidità inarrendevole d’un granitico american dream per cui, anche se n’è stati vinti, valeva la pena vivere.
Sì, da Rocky II in poi, compreso quest’ultimo, Rocky Balboa vince sempre. Ed è per questo che, al di là dell’inevitabile successo straordinario di pubblico, tutti i seguiti non sono stati in fin dei conti grandi pellicole, tutt’altro.
Perché Rocky non è in verità un vincente, è uno che semmai o meglio, oppure tutt’al più, non vuole arrendersi e andar giù.
Ed è per queste stesse ragioni che Rocky V e il capitolo conclusivo di questa comunque strepitosa saga, Rocky Balboa, funzionano egregiamente, assai meglio dei precedenti.
Perché nel quinto Rocky, Balboa combatte per strada, ritorna fra la povera gente, abbandona il suo comfort e quei lussi che forse non gli sono mai nell’anima appartenuti, e alla fine, battuto ancora una volta solamente ai punti da Mason Dixon, si congeda commosso fra le lacrime dal suo pubblico adorante.
Quindi, scivola nuovamente negli anfratti morbidi e melanconici della sua storia. Dei suoi dolori, del suo infinito amore ora defunto. Adriana.
Un colosso d’argilla mai messo al tappeto da nessuno, un beniamino titanico figlio del suo popolo, quasi un eroe biblico, un uomo nudamente, ingenuamente sincero.
Per cui, nonostante tutto, tiferemo sempre.