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Ad Astra – Recensione del film di James Gray con Brad Pitt e Tommy Lee Jones

Dopo una partenza non propriamente col botto (infatti, La Vérité, film d’apertura della 76.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica che, a prescindere dall’alta scuola cineastica del suo regista, ha scontentato gran parte del pubblico, spaccando la Critica a metà), è sbarcato al Lido l’attesissimo Ad Astra di James Gray che vede, come sapete, il mega divo Brad Pitt in veste di protagonista assoluto.

Ora, a scanso di equivoci, vogliamo esservi fin da subito chiarissimi. Ad Astra doveva, almeno sulla carta, rappresentare il primo, sfavillante piatto forte del Concorso, visto e considerato il pregevolissimo carnet di James Gray, director che pareva essersi attestato su livelli altissimi e, almeno sino a Ad Astra, aveva sfornato opere piuttosto incontestabili, regalandoci brii ed emozioni impari. Autore infatti di gemme indimenticabili sin dal suo primissimo esordio, ovvero Little Odessa, Gray in queste due ultime decadi abbondanti è cresciuto vertiginosamente, affinando e rafforzando sempre più la sua poetica, definendola immediatamente coi bellissimi I padroni della notte e Two Lovers, dunque modellandola in maniera esponenzialmente elegante e soavemente minimalista anche in pellicole a più grosso budget come C’era una volta a New York e Civiltà perduta.

Perciò, ci duole davvero il cuore e siamo tanto profondamente rammaricati quanto obiettivamente sinceri e giustamente spietati nell’asserire, senza ripensamento alcuno che, ahinoi, Ad Astra è il suo primo, clamoroso, galattico passo falso.

Una rovinosa panzana immoderatamente pretenziosa, un’immane sciocchezza new age che impunemente saccheggia un interminabile, sconfinato, oceanico immaginario culturale, metafisico e non, di science fiction, rubacchiando e riciclando tematiche esistenzialistico-filosofiche, decisamente meglio sviluppate, un po’ dappertutto. Palesemente attingendo a piene mani dall’immortale capolavoro di Kubrick, 2001: Odissea nello spazio, permettendosi addirittura di prelevargli l’idea del primate che poi, d’insopportabile versione ammiccante, furbetta e programmaticamente pseudo-cinefila proveniente ed estrapolata da Il pianeta delle scimmie, sviluppando progressivamente coscienza e repentinamente acquisendo un’ingigantita intelligenza umana, eh sì, si ribella alla nostra presunta razza superiore per detronizzarla al fine di colonizzare lo spazio, monopolizzandolo a immagine e somiglianza della sua sopraggiunta divinazione superomistica.

Ma procediamo con calma, partendo dalla semplice trama:

Ry McBride (Brad Pitt) è uno stimatissimo astronauta figlio di colui che, a sua volta, è stato il primo uomo a mettere piede su Giove, l’esimio Clifford (Tommy Lee Jones), un invincibile luminare e spaziale viaggiatore leggendario.

Un uomo dato per disperso e morto parecchio tempo or sono.

Invece, con sua somma e scioccante sorpresa, viene informato dagli scienziati e dai dirigenti della NASA che suo padre, a quanto pare, è ancora vivo e vegeto. Piantonato in una stazione che orbita attorno a Nettuno. Ove l’uomo, in preda forse alla pazzia e a un devastante esaurimento nervoso, provocato dalla sua sin troppo protratta lontananza dal pianeta Terra, dopo aver peraltro massacrato tutti i membri del suo equipaggio, sarebbe addirittura adesso pronto a rivelare al mondo intero un enigmatico, inquietante messaggio che rischia di compromettere e frantumare ogni assodata, antropocentrica certezza non solo sul funzionamento del sistema solare, bensì capace di ribaltare la teoria di Galileo, di fatto già apparentemente rivoluzionaria e sovvertitrice del vetusto, erroneo, annientato geocentrismo, e in un nanosecondo di sbriciolare la morale integrità di noi esseri umani allunati nelle meandriche solitudini ancestrali dei nostri stessi inconsci inesplorati e probabilmente mai illuminatisi in forma propulsiva poiché obnubilati, ottenebrati, inibiti, obliati, sviliti e intimiditi dalle ataviche paure innate d’una collettiva, panteistica, cosmogonica, infra-psichica e impalpabile essenza caduca. Già, fin da tutte le primordiali, ermetiche origini, macchiatasi nel buco nero d’una incomprensibile, onirica trascendenza congiunta contemporaneamente però a un istintivo senso d’animalità allarmante e inestinguibile, immanente e incombente.

Perdonate questi miei giochi di parole esagerati, lo sono indubbiamente ma nulla se messi a confronto del bombardamento di assurdità pseudo-ermeneutiche, lapalissiane, sottintese e non, contenute nella miriade dei possibili sotto-testi ridicoli di Ad Astra.

James Gray dev’essersi giocato il cervello, realizzando tale opera soporifera, sebbene ammaliante a tratti per via però unicamente della fascinosa, cangevole fotografia di Hoyte van Hoytema, comprimendo Brad Pitt nel remake con variazione sul tema del suo personaggio di The Tree of Life di Terrence Malick, imitandone di quest’ultimo il peggio e l’estetizzante visione da National Geographic, soffocandoci in una storia pedante e oltre misura moralistica, confinando l’ancora bella e lucente Liv Tyler in una fantasmatica particina assolutamente irrilevante, triste e accessoria, riducendo inoltre il grande Donald Sutherland entro i miseri confini unidimensionali d’una figurina paternalistica in sostituzione del vero padre mai realmente, tangibilmente avuto da Roy/Pitt.

Tornando sempre a Stanley Kubrick, Ad Astra diventa dunque un grottesco Barry Lindon con echi e reminiscenze da Blade Runner dei poveri.

Sì, perché a differenza dell’intramontabile pellicola di Ridley Scott, a dispetto del budget faraonico della Twentieth Century Fox messo a disposizione di Gray, il quale era talmente convinto che avrebbe girato la sua indimenticabile opera magna d’avervi sborsato, in veste di produttore in prima linea, tantissimi soldi personali, l’unica cosa che può avvicinare Ad Astra al migliore Scott di sempre è forse il fatto che noi spettatori, durante queste sue due dure ore di noia assoluta e di emozioni zero, avremmo provato un minimo di suggestioni e viscerali, autentiche sensazioni sentite se Gray avesse avuto il coraggio di menzionare un altro capodopera proprio di Ridley Scott, ovvero Alien.

L’unico film, fra quelli da lui involontariamente o volutamente citati, che manca all’appello del suo Ad Astra. Sì, Ad Astra è una pellicola scialba che almeno avrebbe in noi scatenato una scintilla emozionale ed emozionante se, in mezzo a questo buio e vuoto cinematograficamente cosmico, il mostro di Alien fosse comparso all’improvviso.

About Stefano Falotico

Scrittore di numerosissimi romanzi di narrativa, poesia e saggistica, è un cinefilo che non si fa mancare nulla alla sua fame per il Cinema, scrutatore soprattutto a raggi x delle migliori news provenienti da Hollywood e dintorni.

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