22 Luglio: Nel raccontare un’altra tragedia realmente avvenuta (dopo “Bloody Sunday”, “United 93” e “Captain Phillips”) Greengrass si dimostra sbiadito e incredibilmente poco ispirato.
Storia vera dell’attacco terroristico che colpì la Norvegia il 22 luglio 2011, quando 77 persone morirono a causa di un duplice attentato per mano dell’estremista Anders Breivik (Anders Danielsen Lie). Il film sposa lo sguardo di uno dei superstiti, raccontandone il superamento del trauma e la normalizzazione del paese dopo la strage.
Cosa funziona in 22 Luglio
Tutta la prima parte, o meglio i primi quarantacinque minuti circa, durante i quali Paul Greengrass sfodera tutto il proprio grintoso talento. Forte di quel taglio fortemente realistico che sappiamo essere la sua cifra stilistica, il regista confeziona un crescendo di tensione sbalorditivo e furente che è indubbio grande cinema.
Perché non guardare 22 Luglio
Colpa del suo fallimento è tutta la seconda parte, da quando Breivik viene arrestato e l’attenzione si sposta su Viljar, ragazzino miracolosamente sopravvissuto alla strage, costretto a una dolorosissima (moralmente quanto fisicamente) ma soprattutto interminabile riabilitazione della quale non ci viene risparmiato dettaglio alcuno. Anzi, tanto Greengrass affonda il coltello nella piaga da finire per abbracciare il patetismo più derivativo e scialbo e rendere pedante, ripetitiva e francamente interminabile quella che aveva tutte le carte per essere una grande narrazione.
Accolto tiepidamente a Venezia, l’ultimo film di un altrove straordinario regista è piatto e dozzinale, pedissequo e ricattatorio. Anche con quella mezz’ora di meno che lo avrebbe quantomeno salvato dall’insufficienza, “22 Luglio” rimane lo stanco prodotto che ad ogni minuto pare concepito apposta per la piattaforma televisiva alla quale è stato destinato.