Tra alti e bassi, un’altro Festival Veneziano ha dispensato soddisfazioni e delusioni. Come spesso capita al cinema, ci sono state le belle sorprese dietro ai titoli poco quotati e i brutti colpi rispetto a quelli più attesi. Ma quest’anno, forse, il fragile divario si è rivelato più netto e sorprendente rispetto alla scorsa edizione.
Vediamoli uno per uno i film di Venezia 75:
FIRST MAN di Damien Chazelle
Non solo e non tanto il biophic dell’uomo che sbarcò sulla luna, quanto la storia dell’elaborazione di un lutto, di una perdita che Neil Armstrong padre fatica a superare. Con applausi a non finire per ricostruzione tecnica (sonoro da manuale) e colonna sonora. Grande cinema.
TRAMONTO di Laszlo Nemes
La ricerca del fratello da parte di una giovane donna è veicolo per scavare negli anfratti bui della Storia (il crollo dell’Impero Austro-ungarico), con una lucidità e una profondità che nemmeno il miglior Sokurov. Momenti di cinema assoluto e squarci di fascino quintessenziale. Capolavoro.
DRAGGED ACROSS CONCRETE di S. Craig Zahler
Cinema pulp, poliziesco d’acciaio, film di dialoghi e tempi dilatatissimi: di tutti gli emulatori e seguaci di Tarantino, Zahler è colui che più si avvicina ai tempi e alle idee del regista di Pulp Fiction. Senza alcuna ombra di plagio, ma anzi forte di una carica e di una visione di fondo proprie.
VOX LUX di Brady Corbet
Un incipit magistrale e i fenomenali titoli di testa (strizzatina a “Shining”) ci introducono a Celeste, pop star iconica che si fa specchio vanesio e plastico di una contemporaneità fallace e finta e dei suoi fantasmi. Grande performance di Natalie Portman, per un falso-biophic seducente e fuori dagli schemi.
OPERA SENZA AUTORE di Florian Henckel von Donnesmarck
Per chi scrive, il miglior film di Venezia 75. Un romanzo epocale di tre ore che paiono venti minuti, nel quale coesistono il buio nazista e una riflessione esistenziale e trascendente sull’arte e la sua genesi. Film gigantesco di un cineasta che credevamo artisticamente perduto, con momenti di emozione pura e insostenibile (tra i tanti, il finale). Immenso.
THE MOUNTAIN di Rick Alverson
Immagini come quadri vuoti, asettici e impenetrabili, sempre alla ricerca di un senso impossibile da identificare. Quintessenza dell’occasione sprecata, dove all’ottima prova di Goldblum fa da contraltare nella seconda parte un Denis Lavant terribilmente insopportabile. Vero flop.
PETERLOO di Mike Leigh
Due ore estenuanti, sfiancanti e in gran parte inutili di dialoghi, riunioni, discorsi e sproloqui che “preparano” al massacro finale. La nobile denuncia di un tragico evento e la pur straordinaria ricostruzione storica rimangono sommerse dal peso di un polpettone interminabile.
A STAR IS BORN di Bradley Cooper
Al netto dell’egocentrismo di Cooper, l’esordio alla regia dell’attore è un inutile filmetto che affastella luoghi comuni e annienta quel poco di buono accumulato nel proprio corso in un finale tragico quanto idiota. Brava Lady GaGa, ma non basta. Terzo e peggiore remake dell’omonimo film di Wellman del 1937.
SUSPIRIA di Luca Guadagnino
Diviso nettamente tra applausi e fischi, un film palesemente brutto con alcune buone intuizioni, tutte mandate a monte da un finale esteticamente ignobile e visivamente aberrante. Cionondimeno, il film è eccessivamente lungo e incapace di conciliare i propri fili conduttori (gli anni di piombo fuori e le vicissitudini interne alla scuola)
AT ETERNITY’S GATE di Julian Schnabel
Delirio indie e vanitoso nel quale un Van Gogh spersonalizzato erra costantemente, spesso catturato nel suo vagheggiare da una regia da primo anno di Scuola di Cinema. Vuoto e piatto, riesce a sacrificare l’ottima prova di Willem Defoe senza dirci nulla tanto dell’uomo quanto dell’artista. Ma si estrapola un gran bel momento: il dialogo con Mads Mikkelsen.
ACUSADA di Gonzalo Tobal
Thriller banalotto senza infamia e senza lode, che attira la nostra attenzione per un paio d’ore scarse e poi si fa dimenticare. Finale aperto che più fuori luogo non si potrebbe.
THE MAN WHO SURPRISED EVERYONE di Natasha Merkulova, Alexey Chupov
Un grottesco cerebrale ed enigmatico, ma prima di tutto profondamente ostico e respingente, affossato prima di tutto dalla propria inconcludente ambiguità.
THE NIGHTINGALE di Jennifer Kent
Improponibile e repellente eccesso di violenza gratuita e brutale votata alla glorificazione di #MeToo. Ma i pretesti narrativi che portano fin lì sono confusi, pasticciati e moralmente aberranti. Insulti in sala alla regista: ad essere sinceri, il gesto è condannabile quanto il film che lo ha originato.
SHADOW di Zhang Yimou
Noiosissimo e verboso wuxia pian nel quale, agli estetismi e alla poesia dei propri tempi gloriosi, Yimou preferisce lo splatter. Terribilmente mediocre, con alcune cadute di gusto tremende.
THE TREE OF LIFE – EXTENDED CUT di Terrence Malick
Un’operazione della quale non si sentiva il bisogno, che rende insostenibilmente pesante la visione di un film già originariamente in bilico d’eccesso.
ARRIVEDERCI SAIGON di Wilma Labate
Graziosa sorpresa nascosta: un bizzarro e divertente (per quanto concesso dal tema trattato) documentario delle toscane Stars che non furono mai stelle e dello sporco Vietnam che per sempre cambiò loro e la propria carriera.
THE FAVOURITE di Yorgos Lanthimos
Affascinante, pungente e grottesco triangolo perverso calato in umori e costumi settecenteschi, ma concettualmente modernissimo. Manca però qualcosa, la carica degli altri film del regista, un vero cuore atto a renderla un’opera personale.
ROMA di Alfonso Cuaròn
Dramma umano e neorealista, che tra campi lunghi e set elaboratissimi non manca di esibire tutto il proprio fascino. Con alcune sequenze straordinarie ma complessivamente debole di molte lungaggini, rimane un viaggio seducente ma freddo, forse sotto sotto perfino un po’ furbo.
THE BALLAD OF BUSTER SCRUGGS di Joel & Ethan Coen
Western a episodi, un’idea narrativa già di per sé fuori dagli schemi e frizzante. Ma se i primi due sono autentici capolavori, buona parte dei restanti delude e il risultato complessivo ne risente. Applausi a metà.
THE OTHER SIDE OF THE WIND di Orson Welles
Al di là dell’importanza retrostante l’operazione di recupero e riproposizione, rimane il dubbio sull’esito di un patchwork difficilmente attribuibile a temi, strutture e poetiche wellesiane. Cinema sperimentale ed estremamente complesso, di indubbi fascino e valore, ma sicuramente non “un film di Orson Welles”.
ANONS (THE ANNOUNCEMENT) di Mahmut Fazil Coskun
Curiosa operazione satirica che affoga i propri buoni intenti in una flemma pressoché inutile e francamente soporifera. Sopravvive la satira e alcuni scambi di battute sono davvero esilaranti (memorabile la barzelletta del finale), ma se ne esce esausti e annoiati.
CHARLIE SAYS di Mary Harron
Cronaca banalotta di quel che fu la Family mansoniana, in un racconto indebolito da una regia fiacca e televisiva, dallo scarso lavoro sui personaggi e dal tentativo riprovevole di rimanere alla larga dalla violenza al centro della vicenda narrata. Mancano, in altre parole, coraggio e personalità.
THE SISTERS BROTHERS di Jacques Audiard
Bislacca e poco riuscita divergenza di Audiard dal (proprio) cinema alto, o – se preferite – d’autore. Un western sempliciotto e ironico, a tratti quasi una commedia, che intrattiene ma non lascia nulla. Buone le interpretazioni di Reilly e Phoenix.
FRERES ENNEMIES di David Oelhoffen
Il noir post-moderno alla francese, freddo ed essenziale, memore dei padri ma asciutto e scevro da ogni estetismo formale. Storia già vista e stravista, ma il cuore c’è e la tensione è costante. Bello senza essere memorabile.
22 JULY di Paul Greengrass
Quaranta minuti di furore e puro cinema che si perdono in una seconda parte più scontata. Un’occasione sprecata per realizzare un capolavoro. Rimane comunque un’opera di rilevante valore social-politico che scava a fondo nel dolore di una tragedia dei nostri tempi.
KILLING di Shinya Tsukamoto
Cinema di carne e sangue, essenziale eppure a tratti lirico. Ciononostante, di storie come questa ne abbiamo viste tante e l’ispirazione di “Tetsuo”, “A Snake of June” o anche solo del bellissimo “Nightmare Detective” è lontana. Comunque un buon prodotto di genere.
NULLA DI SACRO di William A. Wellman
Un capolavoro dimenticato che è anche una delle più belle commedie degli anni ’30 e uno dei migliori film dell’instancabile Wellman. Una rutilante e pungente satira al veleno, avanti decenni sul proprio tempo.