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Indietro nella memoria, True Detective, un fenomeno di culto

Ora, come molti sapranno, sono attualmente in corso le riprese della terza stagione di True Detective, interpretata da Mahershala Ali. Nell’attesa che i ciak si concludano e aspettando la sua messa in onda, che avverrà con tutta probabilità non prima della metà del prossimo anno, e tralasciando la seconda stagione, forse un intermezzo, una parentesi dimenticabile, facciamo un promemoria recensorio della prima stagione, quella celeberrima che ha inaugurato la Rust Cohle mania, ingenerando un fenomeno di culto che non si vedeva forse dai tempi di Twin Peaks.

Ecco che, dopo una lunga gestazione, dopo una segretezza assoluta riguardo al progetto, sulla HBO il 12 Gennaio del 2014 debutta appunto la prima stagione di questa serie antologica, cioè una serie che, mantenendo intatte le coordinate narrative e rimanendo coerentemente pressoché omogenea nei canovacci stilistici, si rinnova però a ogni stagione a seguire, differenziandosi per trama, personaggi e conseguentemente per gli attori principali che la interpretano.

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In questa iper-osannata, lodatissima prima stagione, in archi temporali diversi magmaticamente collegati fra loro in maniera sulfurea e immaginativa, seguiamo l’indagine di due detective, Rustin Cohle (Matthew McConaughey), detto Rust, e Martin Hart (Woody Harrelson), detto Marty, alle prese con la spasmodica caccia a un serial killer della Louisiana, fra paludi plumbee, notti allucinate, visioni mesmeriche e una impalpabile, magnetica ambientazione cupa e magicamente esoterica. Dal 1995 al 2012 i due uomini si dannano per acciuffare questo fantomatico uomo misterioso che ha ucciso giovani donne con efferatezza mostruosa. Poi, dal 2012, quando tutto pareva essere stato risolto, l’ingarbugliata storia ha nuovamente inizio perché il caso viene riaperto. Tutto parte col ritrovamento di Dora Lange, una donna rinvenuta ai piedi di un gigantesco albero con la testa fracassata e sormontata da corna di cervo, stuprata e assassinata brutalmente dopo un rito satanico.

Rust Cohle è un uomo enigmatico, perennemente tormentato, afflitto forse dalla sua imperscrutabile solitudine, esperto di criminologia, che abita in un piccolo appartamento scarno e mal arredato, sovrastato da un crocefisso. Lui sostiene di considerarsi un uomo realista ma afferma che in termini filosofici è un pessimista. Magro, smunto, accigliato, nervoso, fuma imperterritamente sigarette su sigarette e par che reprimi ogni emozione briosa dietro una maschera taciturna gelidamente ascetica. Pace omeostatica del suo insanabile tormento esistenziale o elevazione zen di un’anima modellata nei muscoli tesi della sua carne sacrificata?

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Marty invece pare essere felice, ha una famiglia e una bella moglie, è un uomo emotivamente stabile e all’apparenza soddisfatto, ma poi tradisce la consorte con una ragazza di facili costumi, e impariamo presto che, a differenza di quel che possa sembrare a prima vista, è un tipo sanguigno, irascibile, burrascoso, perfino irruento e istintivo.

Due personalità antitetiche ma al contempo speculari che si ritrovano, diventano coppia fissa e si fanno compagnia, fra litigi e scazzottate, in questo lungo, interminabile viaggio ai confini della follia dell’animale uomo, un’immersione dolorosissima prima della catarsi cristologica, dopo l’annientamento la rinascita, il tetrissimo buio dell’oscurità e poi forse la speranza che qualche bagliore cristallino soavemente illumini di bellezza questo mondo maledetto da Dio.

Scrive il prodigioso Nic Pizzolatto, che incede in meticolose riflessioni metafisiche, ammanta di ancestrale fascino, oserei dire, spiritico questa storia appassionante di demoni e uomini solitari, ricreando a nuova vita il mito di Carcosa, attingendo fantasiosamente dall’omonima, immaginaria, sotterranea, celtica e misterica città sepolta raccontata in The King in Yellow and other stories di Ambrose Bierce, Robert W. Chambers e del leggendario H.P. Lovecraft. Attinge dalle suggestioni di questo libro per reinventare temi e situazioni, lo plagia con scrupolosità filologica, lo purifica persino e quindi allestisce un’opera seriale di pregiata sciccheria, un raffinato potpourri sapientemente coagulato di aromatiche atmosfere boschive, umide, spettrali, giocate tutte sul lividoso colore opaco e traslucido post-uragano Katrina.

Allorché True Detective non riesci a dimenticarlo, ogni puntata t’incolla ipnoticamente alla sua visione.

Il merito è di Pizzolatto o della messa in scena disadorna, non effettistica ma efficacissima di Cary Fukunaga? Oppure gran parte del successo si deve alla prova carismatica di un possente, “mistico” Matthew McConaughey?

Ma, soprattutto, True Detective 1 è quella grande serie che ha meritato il plauso che continua ad avere?

Quentin Tarantino, intervistato da Vulture, ha detto… Ho provato a vedere la prima puntata di True Detective, prima stagione, e non l’ho capita.

Ma con tutta la grande stima che nutriamo per il mitico Quentin, sulle cui lecite provocazioni ci sarebbe da discutere e aprire dibattiti come iene che discettano di Like a Virgin, lui pare essere davvero l’unico a non averla capita e amata.

Ora, cosa voglio dire con questo? Che True Detective è davvero il gioiellino intoccabile sul quale mai ci sentiremmo di muovergli delle critiche, esente da difetti e che rimane ad anni di distanza un colpo indimenticabile?

No, mi sento in parte di dissentire. Come tutte le serie, anche le più belle e riuscite, la compattezza si avverte solo a visione completata e avvenuta, in molti, troppi punti, un certo senso di tediosità, e qui do ragione a Quentin, c’è inevitabilmente, è il prezzo che paga questo “format”. Allorché alcuni siparietti, alcune scaramucce fra Rust e Marty sembrano essere lì apposta per allungare il brodo, molte digressioni sono indubbiamente prolisse e non necessarie e spesso, va detto, pare che seguiamo il flusso narrativo solo per aspettare che si spezzi per ammirare l’interrogatorio monologhista di Rust e studiare a memoria quelli che sono oramai i suoi famosi discorsi, youtubizzati e stracitati, sul senso della vita, sulla religione, la coscienza. Monologhi retti dal carisma di McConaughey, sciupato, sdrucito, emaciato, ma che non di rado, rivedendoli, appaiono insopportabilmente sentenziosi, grevemente massimalisti, vanitosamente lapidari.

About Stefano Falotico

Scrittore di numerosissimi romanzi di narrativa, poesia e saggistica, è un cinefilo che non si fa mancare nulla alla sua fame per il Cinema, scrutatore soprattutto a raggi x delle migliori news provenienti da Hollywood e dintorni.

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