Torna Todd Haynes dopo il successo di Carol con l’adattamento di Brian Selznick: La Stanza delle Meraviglie è in Italia dal 14 giugno
Tre anni tra La Stanza delle Meraviglie e Carol sono stranamente pochi per gli standard di Todd Haynes. Il regista californiano aveva abituato il suo pubblico ad opere necessitanti anni e anni di preparazione. L’approdo al cinema su commissione, fieramente commerciale e commerciabile come era stato Carol nel 2015 (successo strepitoso e primo film di Haynes non scritto da lui), ha evidentemente svelato un’inedita urgenza di apprezzamenti per l’ex eroe dell’indipendentissimo New Queer Cinema. Gli anni dei provocatori ’90 sono andati, così come lo sperimentalismo di Io Non Sono Qui. Haynes ha (ri)scoperto il melodramma, i grandi sentimenti e la voglia di coinvolgere le platee. Gli è stato affiancato Brian Selznick, illustratore-autore del libro di partenza e dell’adattamento, in cerca di conferma dopo lo splendido debutto in sceneggiatura con Hugo Cabret (2011). Negli ultimi due anni hanno lavorato assieme a questo La Stanza Delle Meraviglie. Presentato in concorso a Cannes, non ha raccolto niente, e persino in America è passato sotto silenzio.
La storia di La Stanza Delle Meraviglie ha più di Selznick che non di Haynes. Lo scrittore riutilizza diversi temi e stilemi già visti in Hugo, spostando il fulcro dal Cinema di inizio secolo al mondo delle scienze naturali e dei musei: per il resto, è ancora una storia di bambini, di anziani, del tempo perduto e delle reliquie che lo riavvolgono. In un intreccio estremamente complicato (grande difficoltà nel tradurre in 120 minuti la struttura del romanzo), l’orfano Ben (Oakes Fegley), rimasto sordo a causa di un incidente, fugge dalla famiglia affidataria in Minnesota per andare da solo a New York, dove la madre lavorava. Siamo nel 1977. Mezzo secolo prima, la piccola e anch’essa sorda Rose (Millicent Simmonds), fuggì dall’odioso padre per correre a sua volta a Manhattan, e ricongiungersi con la madre assente Lilian Mayhew (Julianne Moore), diva del muto in decadenza. Una serie di circostanze porterà entrambi i ragazzi all’American Museum of Natural History dell’Upper West Side, e a cinquant’anni di distanza, le rispettive storie finiranno per incrociarsi.
Perché vedere La Stanza delle Meraviglie
La Stanza Delle Meraviglie vive principalmente di trovate visive. La più evidente ed incisiva sta nella non scontata scelta di rappresentare i due piani del racconto (1977 e 1927) secondo gli stili cinematografici del periodo. In coppia con lo storico DOP Edward Lachman, Haynes vuole dar sfoggio: e se la storia di Ben è tutta colori sparati, funk e inevitabili inquadrature nostalgia che tanto vanno oggi (vecchi giocattoli, registratori, Space Odissey), quella di Rose è in bianco e nero, muta, recitata in pantomima e accompagnata solo dall’onnipresente partitura del veterano Carter Burnell. Haynes lavora di ricostruzione e omaggio, e la semplice inquadratura di un palazzo diventa ponte e varco tra epoche lontane.
Le scene del 1927 sono prevedibilmente le migliori, più fantasiose, potenti, parzialmente slegate al racconto complessivo e affidate all’incredibile faccia della Simmonds, realmente sorda e già lanciata in A Quiet Place. Il resto è meno dirompente, ma visivamente resta un bel lavoro: come in Carol tutto è soffuso, caldo, colorato persino quando in b/n. La forza del film è tutta qui.
Cosa non funziona in La Stanza delle Meraviglie
A livello di scrittura, La Stanza delle Meraviglie è problematico. L’adattamento per il cinema di un romanzo lungo è la sfida maggiore per uno sceneggiatore di mestiere: figurarsi per chi sceneggiatore di mestiere non lo è. Selznick rimane uno scrittore, e dimostra di non conoscere ancora appieno le caratteristiche narrative di un film rispetto a quelle, infinitamente più libere, di un romanzo. Dopo un primo atto molto bello e movimentato, la natura letteraria di La Stanza Delle Meraviglie prende il sopravvento sulle immagini e ingolfa la narrazione. I personaggi si bloccano, il ritmo gira a vuoto, i dialoghi diventano spiegoni di quindici, venti, trenta minuti. La Stanza delle Meraviglie è statico, lentissimo, quando dovrebbe vivere di avventura e mistero. Parte veloce, si interrompe bruscamente per un estenuante secondo atto di ambientazione museale, riprende improvvisamente a correre con un pretesto risibile e incontra un finale di grandi rivelazioni annacquatissimo e un po’ prevedibile.
Ne risente inevitabilmente la gestione dei personaggi. Troppi dei nomi tirati in ballo nella complicatissima storia personale dei protagonisti non hanno volto, vengono citati en passant, ma assumono valenza chiave al momento del finale. In un romanzo è normale: si può divagare, e c’è sempre la possibilità di tornare indietro e rileggere. Al cinema, un personaggio che non ha minutaggio non esiste.
In aggiunta Haynes, tanto spigliato nella messa in scena, non sembra a suo agio nella gestione del melodramma bambino. Quando c’è da affrontare il trauma, il dolore e la paura dei piccoli protagonisti, il regista sembra impacciato. La sua storia non lo coinvolge, e il film non coinvolge noi. La Stanza delle Meraviglie dovrebbe essere grandioso e commovente, ma risulta faticoso, e molto poco interessante.
La freddezza che ha accolto La Stanza delle Meraviglie non deve stupire. Parto di due autori sulla cresta dell’onda, è un passo indietro per entrambi, e un fallimento piuttosto consistente per un tipo di cinema “natalizio” (melodramma, famiglia e buoni sentimenti) preso estremamente sul serio dagli americani. Il risultato è un film problematico e simile a troppi altri, con qualcosa di bello da far vedere, e pochissimo per farsi ricordare.