Il primo settembre è stato presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia il remake di Suspiria diretto da Luca Guadagnino. Molto atteso, spropositatamente lungo, avvolto dal mistero più assoluto e anticipato da due trailer molto intriganti ma che, almeno questa è la mia sensazione a pelle, stilisticamente poco mi paiono in linea col variopinto lavoro pittorico dell’originale. Ovviamente, il celeberrimo Suspiria di Dario Argento del ’77.
Un film del quale ho sentito ossessivamente parlare per tempo immemorabile ma che, per una ragione o per l’altra, mai avevo visto sin ad ora. Enorme lacuna da me colmata poche ore fa. Quando, nella segretezza, oserei dire catacombale di una notte afosa e umida, nel torpore mesmerico delle mie ansietà pindariche, l’ho ammirato in smerigliata versione restaurata, nell’esplosivo nitore abbacinante dei suoi fotografici colori incendiari.
Film della durata di un’ora e trentotto minuti, da noi uscito il primo Febbraio, appunto, dell’anno 1977. Quindi, oramai quarantuno anni fa. Da subito divenuto un pregiatissimo cult presso gli estimatori di Dario Argento che ai quei tempi, dinanzi a ogni sua nuova opera, si esaltavano come euforici gnomi, ma all’epoca assai mal accolto dalla Critica.
A tutt’oggi, nonostante la scomparsa del compianto Morando, Laura e Luisa Morandini, nel Dizionario del loro padre, conservano la sua vecchia, indelebile e imprecisa recensione: …Il disinteresse di Argento per la logica narrativa è qui macroscopico, programmatico. Intanto, però, grazie alla musica dei Goblin, inventa il thriller assordante: picchia sull’orecchio quanto sul nervo ottico. Nel suo delirio gotico e mitteleuropeo la scenografia è la vera protagonista del 6° film di questo maramaldo della regia che obbliga l’ottimo Luciano Tovoli alle più spericolate acrobazie della cinepresa. Nella sua ricerca di un fantastico metafisico e demoniaco, apre una trilogia della Mater Inferi, proseguita con Inferno e Phenomena.
Peccando di grave ignoranza perché, come sapete meglio di me, la Trilogia a cui Morandini fa riferimento non include Phenomena, film del 1985, che semmai di Suspiria n’è soltanto un rifacimento tematico e fantasiosamente ne mutua pressappoco la stessa storia, bensì La terza madre (Mother of Tears) del più recente 2007.
Detto ciò, appurato che Suspiria fu abbastanza respinto e osteggiato da una Critica piuttosto fastidiosamente cattedratica e supponente, molto prevenuta e che in quel periodo non nutriva particolare stima nei riguardi di Argento (o perlomeno guardava alle sue opere con molta diffidenza, mantenendo un ottuso atteggiamento di ostile perplessità), adesso, sebbene mi paia ovvio e pleonastico evidenziarlo, è considerato uno dei suoi migliori film, un indiscusso caposaldo della cinematografia horror in maniera tout–court. Basti pensare al fatto che, assieme a Profondo rosso, è il film per il quale Argento all’estero è assurto a maestro, ed è la pellicola per la quale è diventato famoso. Acquisendo e consacrando la sua fama internazionale di regista del brivido e del terrore.
Sceneggiato dallo stesso Argento assieme all’ex compagna Daria Nicolodi (madre di Asia…), è liberamente ispirato al libro Suspiria De Profundis di Thomas de Quincey.
Trama…
Una brillantissima ballerina, Suzy Bannion (Jessica Harper), s’iscrive a una prestigiosa accademia di danza classica di Friburgo, per perfezionare il suo già spiccato talento.
Breve parentesi… bisogna far chiarezza sul nome della protagonista. Wikipedia italiano sostiene che si chiama Susy Benner, IMDb invece asserisce che il suo vero nome è Suzy Bannion, mentre nel remake di Guadagnino, il cui ruolo è interpretato da Dakota Johnson, si fa chiamare Susie Bannion. Sveliamo una volta per tutte l’arcano. Qual è cioè il suo nome esatto e corretto? Nella versione per il mercato statunitense, è Suzy Bannion, da noi Susy Benner. Ma altrove, a seconda del doppiaggio, diventa anche Banner. E infatti il suo cognome è impercettibilmente impronunciabile e può sfumare facilmente in desinenze similmente foniche, pressoché identiche. Gli esperti della fonologia sapranno illustrarvi meglio di me questo fenomeno linguistico. Andiamo avanti…
Arrivata a Friburgo in una notte tempestosa, scende dall’aeroporto e, bagnata fradicia, entra in un taxi che la conduce a destinazione, cioè ai piedi di questa lugubre e barocca scuola. Al suo arrivo, incrocia una ragazza di nome Pat che, in preda a un delirio dissennato, pronuncia sconnesse parole, fuggendo via terrorizzata e impaurita attraverso La Foresta Nera. A Susy viene inizialmente negato l’accesso alla scuola, così deve riparare in un albergo, rimontando sul taxi. E, nel tragitto, assiste alla folle corsa di Pat attraverso lo spettrale bosco. Come in un fiaba nerissima. Pat si rifugia e alloggia da una sua amica. Si affaccia alla finestra della sua stanza e viene afferrata dalle pelose, orche mani di un uomo senza volto che le fracassa il cranio contro il vetro, sbattendole la testa ripetutamente, la trafigge efferatamente più e più volte al cuore, accoltellandola sadicamente, e la impicca, lasciandola precipitare giù da un lucernario.
La mattina dopo, Susy finalmente viene accolta nella scuola. Al cospetto della fiera e arcigna insegnante Miss Tanner (Alida Valli) e della vicedirettrice Madame Blanc (Joan Bennett), o Blanche, sempre a seconda delle differenti versioni. E fa pian piano, molto timidamente, conoscenza delle sue compagne e compagni di corso, fra cui Mark (Miguel Bosé) e Olga (Barbara Magnolfi), con la quale condivide l’appartamento. Sebbene presto diviene molto amica della sua vicina di camera, Sara (Stefania Casini). Le due entrano subito in confidenza e Sara rivela, sempre più turbata, a Susy che a suo avviso la scuola è posseduta da forze malefiche.
Nel frattempo, il pianista cieco della scuola, Daniel (Flavio Bucci), licenziato da Miss Tanner, viene sbranato in modo spaventosamente brado dal suo cane.
Anche Sara muore, assalita da un manigoldo senz’identità, dopo essere cascata sul filo spinato, nel maldestro tentativo di fuggirgli.
Susy, a quel punto, sconvolta da queste inspiegabili uccisioni, comprende che effettivamente qualcosa di molto strano sta accadendo. E anche lei par convincersi che la scuola sia retta e sovrastata da maligne energie metafisicamente paranormali, demoniache e occulte, stregonesche.
Così, per avere chiarimenti in proposito, si affida alle parole delucidative del Dr. Frank Mandel (Udo Kier) ma soprattutto ascolta con molta attenzione le spiegazioni del professore, psichiatra e occultista Milus (Rudolf Schündler), il quale le riferisce che la scuola di danza è stata fondata da una tale Helena Markos (la non accreditata Lela Svasta), da molti in passato considerata una strega potente.
Al che succede l’imponderabile e l’incredibile. E il labirintico gioco di sospetti assume le fattezze di un liberatorio, magico ed esotericamente crudele incubo a occhi aperti.
Ora, la domanda che obiettivamente dobbiamo porci, di fronte a Suspiria, è inesorabilmente questa: rivisto oggi, in tutta calma e ponderatezza, nella sua 4K restored version, è proprio il capolavoro assoluto della filmografia di Argento? Ed è in fin dei conti un capolavoro o un film ampiamente sopravvalutato dai suoi sfrenati ammiratori?
È un film estremamente fascinoso, avanguardistico, figlio dell’Argento all’apice della sua vulcanica, folle creatività e anche della sua pazzia registica. Un Argento sperimentatore, coraggioso tanto da osare qualsiasi cosa, anche la più truce, in barba a tutti, che abbondava di truculenze e sangue a fiotti, fregandosene perfino che il sangue fosse incresciosamente finto e posticcio. Un congegnatore abilissimo dei meccanismi della suspense, un inventore degl’ingranaggi della paura. Un maliardo, satanico precursore, nel bene e nel male.
Qui coadiuvato dalla strepitosa scenografia di Giuseppe Bassan, apoteosi del barocchismo, mirabolante e fantasmagorica, caleidoscopica deificazione di arredamenti e ambientazioni quasi cubistiche e alla Giorgio de Chirico, ch’era appunto uno dei massimi esponenti della metafisica figurativa. E basti rivedere, in tal merito, la scena dell’uccisione di Daniel nella celebre piazza Königsplatz di Monaco di Baviera.
Senza parlare naturalmente della spericolata, cangiante fotografia iper-cromatica di Luciano Tovoli, cinematographer che poi sarà particolarmente caro a Barbet Schroeder. Da paragonare con quella del miglior Vittorio Storaro. Un prodigioso, improbo lavoro prospettivo e profondissimo di luci repentinamente cangianti, che passano dal rosso porpora scintillante al malinconico giallo ocra, dal verde rigoglioso e acrilico al verde più smeraldo sin all’azzurro più oceanico in un batter d’occhio, avvolgendoci di puro incanto visivo.
E senza trascurare, ovviamente, la notissima, martellante e ipnotica colonna sonora dei Goblin.
Il film, si dice, che presenti molte sconcertanti inverosimiglianze. Nemmeno tante, a dire il vero. Tranne in un paio di scene indubbiamente incoerenti. Questa della scarsa plausibilità narrativa di Suspiria è un altro irritante luogo comune che tale pellicola ingiustamente si porta dietro. Ché lo sentite dire da qualcuno e poi, come pecore, belate la stessa imbecille scempiaggine, mi pare oramai davvero osceno.
Argento sintetizza la favole dei fratelli Grimm, con le loro streghe cattive, Biancaneve, Barbablù di Perrault, perfino Pollicino e Pinocchio. E shakera il tutto in un mix terribilmente ammaliante e suggestivo, irresistibile.
Forse io non lo considero davvero un capolavoro, ma è un discorso a parte. Certamente è un film che, in una notte buia e tempestosa, come quella del suo incipit, se lo vedi da solo a luci spente, provoca ancora il suo bel spavento. Eccome.
Suspiria è, va detto, incontrovertibilmente un film italiano al cento per cento. Si sente e si vede che Argento è uno dei nostri. Il suo Cinema era ed è addirittura volgarmente grezzo nella sua palese, torinese italianità, per questo a noi risulta tanto suadentemente magico. Basti pensare che quando gli americani, e non solo, l’hanno copiato, l’hanno rifatto e imitato malissimo, quando lo rifacciamo noi, anche solo nel fumetto, come nel casareccio Dylan Dog, lo ricreiamo alla grande. E non a caso l’ultimo numero speciale di Dylan Dog, Profondo nero, porta la firma di Dario…
Perché Dario non è mai stato sofistico né troppo sofisticato, è stato autenticamente sgangherato e pazzo come gli italiani più belli e sinceri.