Ebbene, il prossimo 29 Novembre uscirà nelle sale italiane il secondo capitolo dello spin–off su Rocky Balboa, ovvero Creed II. Inutile aggiungere altro perché credo che pleonasticamente v’annoierei. Sapete già tutto e probabilmente su questo mitico personaggio, Rocky, che ha dato il successo planetario al suo protagonista, Sylvester Stallone, siete più informati e fan di me e conoscete a menadito, scena per scena, tutti i film della sua celeberrima saga.
Rocky Balboa, il loser per antonomasia che, grazie a un incontro inaspettato col campione in carica dei pesi massimi, Apollo Creed, ritrovò il riscatto di tutta una vita calpestata nella dignità. Nel primo film perdeva ai punti ma trionfava moralmente, elevandosi a paladino statuario di tutta quella povera, brava gente che perennemente, invano aspettava febbricitante e rabbiosa la seconda chance. Rocky questa possibilità l’aveva avuta, gli era stata offerta dalla dea bendata, ed è diventato un mito di Philadelphia, tanto che gli hanno elevato in gloria persino una statua in suo onore.
Ma facciamo un doveroso passo indietro. Prima di autocelebrarsi con l’ultimo episodio del franchise, Rocky Balboa, un film crepuscolare, impregnato di nostalgia abissale e commovente, certamente a mio avviso l’episodio migliore e più riuscito della serie, e prima di continuare le sue avventure, appunto, nei vari Creed, subito dopo il commercialissimo, indigesto e pacchiano incontro con Ivan “ti spiezzo in due” Ivan Drago, Stallone nel 1990 nuovamente scrive il soggetto e la sceneggiatura del quinto e penultimo segmento balboiano, Rocky V, col fido Irwin Winkler ancora come immancabile produttore per la United Artists, e ritrovando il regista del primo, quello oscarizzato che decretò la sua immensa popolarità, vale a dire il compianto John G. Avildsen, deceduto il 16 Giugno dell’anno scorso.
Sconfitto Drago in Unione Sovietica, con tanto di applausi scroscianti di Gorbaciov, Rocky torna nella sua cara e natia Philadelphia. Ma ad aspettarlo vi sono due terribili, brutte sorprese. Rocky avverte dei fortissimi, dolorosi mal di testa e si sottopone a una visita medica. Dalla TAC, risulta che il suo cervello è irreversibilmente danneggiato, in seguito ai troppi duri colpi inferti da Drago sul ring, e gli vien detto quindi che non potrà più combattere. Inoltre, a causa degli scellerati intrallazzi del suo truffaldino commercialista, Rocky ha perso tutte le fortune accumulate e deve sloggiare dalla sua lussuosissima magione, ritornando a vivere nel quartiere popolare ove, prima del successo, era nato e cresciuto. Uno sballottante ma forse rigenerante ritorno alle origini dopo tanti soldi, macchine, una vita agiatissima e gli sfrenati vizi che, inevitabilmente, l’avevano un po’ rintronato.
Rocky torna nella sua vecchia palestra, quella del suo ex allenatore Mickey (Burgess Meredith), e si ricicla lui stesso come personal trailer delle giovani promesse pugilistiche della sua città. Allenare i ragazzi lo rivivifica e presto conosce Tommy Gunn (Tommy Morrison), un ragazzo orfano e sbandato dal combattivo potenziale enorme. Ne diviene il mentore, gli si affeziona quasi più che a suo figlio che comincia a trascurare e, alla fine, lo porta addirittura al titolo più ambito e agognato da qualsiasi boxer, quello del campione dei pesi massimi.
Tommy però nel frattempo si è ammanicato a un manager senza scrupoli, George Washington Duke (Richard Gant), un nome ch’è tutto un programma, un omaccione sbruffone e cinico, ricalcato caricaturalmente sulla figura altrettanto arrivista e spregevole del famoso promoter Don King.
Washington Duke, per tirannica voglia irredenta di guadagnare un sacco di money, riuscirà madornalmente a istigare Tommy Gunn a ribellarsi al suo “padre putativo”, Rocky, cosicché Tommy e Rocky si affronteranno a mani nude in mezzo alla strada, con tutta la gente del quartiere giunta sul luogo ad assistere al frenetico, scoppiettante, sanguinolento, virilissimo, maciullante spettacolo.
Rocky è Rocky, uno che nella vita è andato tante volte al tappeto ma non si è mai arreso per via della sua tenacia indomabile, e vincerà mirabilmente anche stavolta, massacrando di pugni Tommy Gunn. Perché lui è il campione, gli altri sono soltanto sue scialbe, patetiche copie.
E la folla, con tanto di parroco della chiesa locale, in un tripudio di esagitato folclore pittoresco, acclamerà fastosamente, a gran voce magnificante e populista, lui, e chi sennò, Rocky Balboa, il simbolo eterno e invincibile della città, il “totem” quasi cristologico incarnato dalla sua figura titanicamente mitologica. Rocky!
John G. Avildsen non fa un malvagio lavoro di regia, si attiene al compitino, recupera egregiamente le atmosfere suburbane del primo e, nonostante il sovrabbondante, smodato e lacrimevole sentimentalismo pietosamente quasi farsesco e imbarazzante infuso alla vicenda, permette che il suo Rocky V si guardi abbastanza volentieri.
È la sceneggiatura a difettare non poco. Nell’iniziale versione, Rocky doveva morire sotto i colpi micidiali e letali di Tommy Gunn, dando addio definitivamente, in maniera tragica e funesta, al suo leggendario personaggio. Ma ciò avrebbe certamente scontentato il pubblico e i suoi irriducibili aficionado, e dunque si optò naturalmente per un finale decisamente diverso, appunto trionfalistico.
La storia è piena di buchi ed errori filo-narrativi colossali. Dopo il match con Drago, Rocky torna appunto a casa. Il figlio lo sta aspettando calorosamente per abbracciarlo. Ma non è più il piccolo bambino che, alla fine di Rocky IV, avevamo visto esultare di gioia assieme ai suoi amichetti per la vittoria di suo padre. Adesso, a distanza di pochissimi giorni, è già cresciuto e ha le fattezze puberali-adolescenziali del vero figlio di Stallone, Sage.
Insomma, dalla vigilia di Natale alla notte di San Silvestro sin a Capodanno, nella tetra Philadelphia invernale, il figlio di Rocky, in una manciata di ore, ha subito una metamorfosi incredibile, da bambino gracile e timido s’è trasformato in un brufoloso pupetto arrogante e viziato, nell’accrescimento iper-scattante di una fisionomia fisico-emotiva mutata in un battibaleno, superando esponenzialmente ogni fase normale e delicata dello sviluppo. Roba da fare un baffo a Kafka. Ah ah.
E poi… ma come? Rocky aveva tirato su quel ragazzo con tanta accortezza e affetto spaventosamente amorevole, quasi fosse un prezioso Bonsai da far germogliare e coltivare con cura minuziosa, e basta solo che Tommy sferri un pugno al suo cognato Paulie Pennino (il solito Burt Young) per innescargli la reazione omicida di vendetta, per scendere in istrada e annientare Tommy a base d’imperiosi montanti dalla potenza inaudita e jet lag crudelissimamente furiosi? Sì, in fondo il termine jet lag, usato metaforicamente nel pugilato per definire i colpi frastornanti, altri non è letteralmente che la discronia emozionale-percettivo dovuta ai fusi orario. E Stallone, dunque, redigendo lo script, deve aver dato di testa… Ah ah.
Una sceneggiatura “clinicamente” asincronica che passa da un cardiaco, viscerale stato psicologico all’altro semplicemente perché gli appassionati della saga non aspettano altro che a Rocky scatti la molla della grinta perduta e della scintilla poderosamente riscoccata. Senz’alcun nesso logico e coerenza diegetica. Ma comunque di sicuro effetto, carica e presa.
Se accettate tutto questo, Rocky V può emozionarvi come tutti gli altri. Ed è comunque, ripeto, indubbiamente superiore al precedente.
Rocky V però ha portato decisamente sfortuna sia a Sage Stallone che a Tommy Morrison. Sage, alla sola età di trentasei anni, è stato trovato morto nel suo appartamento il 13 Luglio del 2012.
A Tommy Morrison, che è stato realmente un campione dei pesi massimi del campionato WBO, battendo il gigante George Foreman, e che nell’ambiente veniva soprannominato The Duke per essere stato uno dei pochissimi atleti bianchi a gareggiare in una categoria esclusivamente riservata a quelli di colore, è andata quasi peggio. Nel 1996 ammise pubblicamente di essere affetto dal virus HIV. E il primo settembre del 2013, dopo un lungo calvario dovuto all’AIDS, è precocemente morto alla sola età di 44 primavere.
Peraltro, secondo l’ex moglie Trisha, Morrison era anche malato della terrificante sindrome di Guillain-Barré e, prima di morire, non riusciva più a muoversi, tanto da rimanere ampiamente paralizzato a letto per circa un anno.
Mi spiace, a tutt’oggi, ancora molto. Nonostante il suo personaggio in Rocky V non sia simpaticissimo, Tommy Morrison era diventato uno dei miei beniamini dell’infanzia. Posso confidarvelo. Un pezzo d’uomo granitico dai muscoli impressionanti. È stata un’orribile fine ingiusta.
Tutto qui.
Questo è Rocky V nel bene e nel male.
Viva Rocky V!