Oggi voglio parlarvi di un film a mio avviso grandioso, Qualcosa è cambiato (As Good as It Gets) di James L. Brooks. Un’eccentrica, desueta storia d’amore condita con un pizzico di balzana follia.
È un film che la rivista Empire ha piazzato al centoquarantesimo posto fra le 500 pellicole più belle di tutti i tempi, ed è uscita da noi il 30 Gennaio del 1998, ma è considerata dell’anno prima, perché negli States è stata presentata a fine ’97 per poter gareggiare agli Oscar. Di statuette ne ha vinte due, andate ai suoi due splendidi protagonisti, uno scatenato, gigioneggiante Jack Nicholson, e una radiosa Helen Hunt, nell’anno in cui a trionfare e sbaragliare totalmente la concorrenza è stato il celeberrimo Titanic di James Cameron. Credo sinceramente che, se nella propria strada, non avesse incontrato il colossal epocale con DiCaprio e la Winslet, Qualcosa è cambiato avrebbe al suo posto tranquillamente trionfato. Ma poco alla fine ha potuto contro la grandeur iper-spettacolare del “filmone” per eccellenza, che l’ha raso al suolo in termini di premi e incassi.
Qualcosa è cambiato è un film qualitativamente superiore a quello di Cameron, no, non sto bestemmiando, ma una raffinatissima commedia agrodolce di 139 min non poteva, in tutta sincerità, competere con la magniloquenza pomposa dell’affondato eppur cinematograficamente inaffondabile Titanic.
Questa la trama:
Melvin Udall (Jack Nicholson) è un brillante scrittore di romanzetti rosa, alla Harmony per intenderci, tanto smielato e romanticone nelle sue opere quanto recluso nel suo comodo, spazioso appartamento di Manhattan, un misantropo che soffre del DOC.
Il DOC, per chi non lo sapesse, è l’acronimo del disturbo ossessivo-compulsivo, una sindrome mentale caratterizzata perlopiù da anancasmi, cioè rituali metodici col quale la persona, che ne è affetta, cerca di razionalizzare il pensiero, di stabilizzarlo e distoglierlo dalle nevrosi che la ossessionano e la tormentano, attraverso tutta una serie di gesti e comportamenti insignificanti agli occhi degli altri ma che, secondo le sue psichiche logiche interne, hanno un significato preciso per esorcizzare principalmente la forte ansia che l’affligge.
Vi faccio un esempio: una persona si lava ripetutamente le mani, anche quando invero le sue mani sono già pulitissime, come se attraverso quest’azione e mania ritualistica resettasse la sua anima, depurandola da incombenti, insistenti pensieri cupi e angosciosi.
Se ve ne parlo con una certa chirurgica minuziosità psicanalitica è perché anch’io, in qualche maniera, durante l’adolescenza ne ho parzialmente sofferto. Sì, nel vortice di quell’età acerba tanto inquieta, abbisognavo di meccanismi di difesa compensativi dinanzi all’immane stress di quel periodo esistenzialmente tribolato e colmo di patemi d’animo. Non biasimatemi, credo che ciò mi renda meravigliosamente umano.
Ecco, ma torniamo al film, non perdiamoci in digressioni diagnostiche e psichiatriche.
Melvin è un tipo insomma insopportabile, non ha amici ed è perfino razzista e omofobo. Un mezzo mattoide arido, cinico e deluso dalla vita per farla breve che però, quando meno te l’aspetti, sa aprirsi a inaspettati e inauditi slanci vitali romanticamente commoventi e indulge caritatevolmente in gesti di profonda bontà. Così, per fortuite, inattese circostanze del caso, Melvin si prende cura del cane del suo mal tollerato vicino di casa, un pittore e disegnatore gay, Simon (un bravissimo Greg Kinnear), costretto ad affidargli la tenerissima bestiola perché è convalescente in ospedale, dopo essere stato brutalmente aggredito da dei manigoldi che gli hanno svaligiato casa. Ma soprattutto Melvin stringerà sempre più un’intima, complice amicizia con la cameriera del suo bar sotto casa sua, Carol Connelly (Helen Hunt). Una donna sola, gran lavoratrice oberata e schiacciata da tanti debiti, che tira disperatamente avanti come meglio può e non sa davvero come riuscire a pagare l’assistenza sanitaria per salvare il suo bambino, molto debole, che versa in condizioni di salute assai precarie e cagionevoli.
I tre, fra tanti equivoci, schermaglie, divertenti e tragicomiche scaramucce, diverranno miracolosamente, nonostante le rispettive, abissali differenze caratteriali, via via affiatatissimi e, alla fine, Melvin s’innamorerà di Carol. Rivelandole i suoi passionali sentimenti in una scena magistrale, quella del gran bel complimento… Mi fai venire voglia di essere un uomo migliore.
Una scena di rara finezza, recitata da Dio sia da Nicholson che dalla Hunt, in un gioco leggiadro e maliardo di sguardi e delicatezza estrema.
Sì, il film è ruffiano, molto furbo ma James L. Brooks, ripeto, è un campione di levità assoluta e sa aggirare le facili trappole del patetismo e del facile buonismo, della retorica e dei luoghi comuni che una storia di questo genere poteva inevitabilmente ingenerare e indurre a cascarvi, girando con un’elegante, graffiante, soffice e armonica morbidezza della messa in scena da grande Cinema d’altri tempi.
Questo è un film meraviglioso.
E così Nicholson, battendo i suoi diretti concorrenti, Dustin Hoffman di Sesso & potere, Matt Damon di Will Hunting, e i suoi due amici veterani, Peter Fonda de L’oro di Ulisse e Robert Duvall de L’apostolo, nella notte delle stelle di Titanic, alzò al cielo il suo terzo Oscar, come Best Actor dell’anno, dopo gli altri due vinti con due personaggi altrettanto “fuori di testa”, il leggendario rebel McMurphy di Qualcuno volò sul nido del cuculo, e il suo “non protagonista”, stralunato Garrett Breedlove di Voglia di tenerezza, sempre per la regia di L. Brooks.
Qualcosa è cambiato, un film da vedere e rivedere.
Fidatevi. Se non l’avete ancora mai visto, guardatelo quanto prima. Vi farà sentire persone migliori.