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Racconti di Cinema – Gangs of New York di Martin Scorsese con Leonardo DiCaprio e Daniel Day-Lewis

Gangs of New York: Ecco, cos’è un capolavoro mancato?

In tal caso ci riferiamo a un film. Un film, cioè, che aveva tutte le carte in tavola per diventare un’opera magna e che invece, per svariati, sfortunati motivi, non è diventato appunto appieno un capolavoro, pur rimanendo una pellicola altamente stimabile.

Ovvero Gangs of New York di Martin Scorsese, della spropositata durata di due ore e 47 minuti. Una durata improba per i tempi moderni ma sappiate, come credo già saprete, che il film inizialmente doveva durare molto, molto di più, ed è stato sforbiciato e lungamente accorciato nel minutaggio su espressa richiesta dell’allora fastoso produttore Harvey Weinstein, prima del suo collasso rovinosissimo, quando ancora era a capo della major Miramax. E questa è infatti la principale, più rilevante ragione che sta alla base della sua incompiutezza.

La lunghezza di un film non significa sempre necessariamente prolissità, ma alle volte corrisponde a grandiosa rinomanza, basti pensare a C’era una volta in America. E, peraltro, a proposito proprio di Sergio Leone, questo è un film epopeico che, per struttura narrativa, col suo tema centrale della vendetta, può ricordare in qualche maniera Per qualche dollaro in più, ed è il film che più di tutti gli altri, nell’excursus scorsesiano, è avvicinabile e paragonabile a un western, coi suoi topos, le sue cadenze crepuscolari e gli scontri duellistici con le pistole, i fucili e i coltelli. Oltre naturalmente per il periodo storico nel quale è ambientato, su per giù coincidente con l’epica ed epoca di frontiera della conquista del West. Certo, in Gangs of New York, non vi sono gli indiani o non campeggiano le sconfinate praterie di John Ford, ma si parla pur sempre dei padri fondatori d’America e del loro indomito, seppur cinico e violentissimo spirito pionieristico.

America Was Born In The Streets recitava d’altra parte la frase di lancio.

Scorsese voleva realizzare Gangs of New York da una vita. Ma solo dopo spropositate revisioni, ripensamenti, soltanto dopo aver trovato il faraonico finanziamento per mano appunto del generoso Weinstein, è riuscito a concretizzare questo suo intimo, meraviglioso sogno. Con esiti però, come detto, discutibili.

Nel suo cassetto di belle speranze, Scorsese aveva da anni immemorabili la sceneggiatura di Jay Cocks, amico writer che per lui ha scritto anche L’età dell’innocenza e Silence, oltre a Strange Days di Kathryn Bigelow. Già, questa pregevolissima sceneggiatura era in suo possesso da circa un trentennio. Ma negli anni settanta lui non aveva acquisito ancora la nomea e l’intoccabile notorietà per potersi permettere un film dal budget tanto dispendioso, e poi è stato assorbito da altri progetti più immediatamente fattibili.

Al che, sul finire degli anni novanta, sì, la genesi di Gangs of New Tork è questa, Scorsese pensa di affidare il ruolo del villain al suo inseparabile amico Robert De Niro. E De Niro, proprio in quel periodo, vuole fondare un enorme studio a New York assieme a Weinstein. Gangs of New York inizialmente doveva essere girato nei set ricostruiti all’interno di questa gigantesca costruzione. Ma l’allora sindaco Rudolph Giuliani, dopo aver dato dapprincipio il suo assenso affinché questo mega-studio potesse esser edificato nella sua città, fece dietrofront e bloccò ogni lavoro in corso, adducendo come scusa il fatto, assai opinabile e irrisorio, che le mappe topografiche di New York sarebbero state macchiate da tal colossale Hollywood in miniatura fabbricata nella Big Apple.

De Niro poi si dissociò dal film per motivazioni ancora abbastanza ignote e oscure, ma Scorsese non demorse e, sempre col patrocinio del tycoon Weinstein, optò per la mitica Cinecittà. Dapprima propose il ruolo del Butcher, susseguentemente andato al ripescato Daniel Day-Lewis, a Nick Nolte, quindi a Willem Dafoe ma, entrambi, poco allettati dall’idea di doversi trasferire per tanti mesi in Italia, rinunciarono alla parte.

E, appunto, Weinstein, dopo un’estenuante corteggiamento, riuscì a persuadere Day-Lewis. Day-Lewis che, a quel tempo, dopo The Boxer di Jim Sheridan, si era momentaneamente ritirato dalla recitazione, andando (sì, è verissimo) a svolgere praticantato da “ciabattino” presso un pregiato mastro calzolaio di una bottega fiorentina d’alta scuola.

Day-Lewis, in fondo, non poteva declinare la gentilissima, preziosa offerta di Weinstein. D’altronde, Il mio piede sinistro, per la cui performance vinse il suo primo Oscar, era stato distribuito e promosso nel mercato nordamericano proprio dalla Miramax.

Orbene, dopo quest’interminabile ma doveroso, ineludibile preambolo, passiamo alla trama…

Trama abbastanza scontata, lineare e banale ma non è questo comunque il problema. O perlomeno non è soltanto questo.

Dopo il prologo del 1846, l’azione si sposta con un repentino flash forward, o forse in tal caso, rimanendo poi la vicenda collocata perennemente in questo spazio-tempo, sarebbe più pertinente dire con un forte salto temporale, al 1862, quando il giovane Amsterdam Vallon (Leonardo DiCaprio) rincasa nella sua natia New York per vendicarsi senza pietà di William Cutting (Day-Lewis), soprannominato Bill il Macellaio. L’uomo che barbaramente uccise suo padre, Il Prete, (Liam Neeson), il leader rivale della fazione opposta alla sua, durante un brutale combattimento fra gang per affermare il predominio territoriale. William risparmiò l’esistenza di Amsterdam, concedendogli di vivere e crescere, ma lo spedì in riformatorio. Adesso Amsterdam è tornato per estirpare il debito lasciato in sospeso nei riguardi di William. Per sigillare e definitivamente pareggiare efferatamente i conti.

Amsterdam però dissimula i suoi intenti vendicativo-omicidi, legandosi in modo subdolo e ruffiano a William, compiacendolo tanto che William, ignaro che sia il figlio del Prete, lo accudisce, lo tratta come un figlio e ne diviene una sorta di padre adottivo e spirituale.

Sia Amsterdam che William sono irresistibilmente attratti dalla ladra borseggiatrice Jenny Everdeane (Cameron Diaz).

E alla fine, parafrasando il titolo originale del film di Paul Thomas Anderson, Il petroliere (There Will Be Blood) proprio con Day-Lewis, ci sarà sangue!

Cito non a caso il capolavoro di Anderson perché l’interpretazione di Cutting da parte di Day-Lewis, con la sua aria perennemente torva, cupa e minacciosa, e coi suoi baffetti da sparviero, può considerarsi, a mio avviso, come una specie di palestra recitativa in vista del suo immane e meglio delineato, granitico e monumentale Plainview.

E, a conti fatti, è proprio la prova superba, seppur un po’ caricata e sopra le righe, di Day-Lewis, la vera, squillante nota unicamente impeccabile del film. E infatti venne candidato come Migliore Attore Protagonista agli Oscar, sebbene fu sconfitto sorprendentemente dall’Adrien Brody de Il pianista, e nonostante tutti i pronostici della vigilia lo dessero come imbattibile favorito per la vittoria della statuetta, persa incredibilmente per un soffio.

Perché, da altri punti di vista, Gangs of New York invece di pecche ne ha moltissime.

Innanzitutto, partiamo col dire che tutti i personaggi, in particolar modo quelli principali, non innescano alcuna empatia in noi spettatori, non intercorre neppure fra loro quella chimica esplosiva che li avrebbero resi meno bidimensionali, sono superficialmente tratteggiati, e non ci si riesce mai ad affezionare a nessuno di essi con buona pace del pur bravo e volenteroso DiCaprio (qui alla sua primissima collaborazione col proprio futuro mentore Scorsese) e soprattutto di Cameron Diaz, il cui character è sciattamente mal scritto, risibile, e lei non era comunque l’attrice adatta a incarnarlo. Troppo scipita, smorfiosa e sostanzialmente accessoria. Imbambolata, incapace d’infondere alla sua Jenny la giusta carica erotica e il benché minimo, interessante spessore introspettivo.

Come già accennato, la sceneggiatura di partenza, ch’è il fantasioso adattamento dell’omonimo libro (eccezion fatta per l’articolo determinativo The davanti) cronachistico di Herbert Asbury, The Gangs of New York: An Informal History of the Underworld, è stata notevolmente rimaneggiata, perfino a ridosso delle riprese, e son state forzatamente, innaturalmente apportate radicali modifiche allo script di Jay Cocks, con gli interventi pur lodevoli Steven Zaillian e Kenneth Lonergan, schiacciando la storia, comprimendola, smorzando e annacquando le scene di violenza che, al di là del furioso incipit sanguinoso e potente, si son rivelate retoriche, enfatiche, strozzate e attenuate. Sfiatate. Colpa, dunque, non da poco snaturare la pressoché paradigmatica, obbligatoria violenza stilistica di un film di questo tipo, specie se di Scorsese, cantore per eccellenza delle veementi, dinamitarde, viscerali ferinità visionarie.

E quelle che, quindi, dovevano essere delle migliorie si son rivelate addirittura come delle madornali, insulse, diegetiche incongruenze parossistiche. Letalmente dannose. Il film è stato così smembrato nella sua compattezza, coartato nella sua cruda, originaria, stupenda, belluina carica aggressiva, e di conseguenza le scene appaiono soventemente scollate l’una dall’altra, intervallate da inutili, inappropriate digressioni coatte, vincolate dalle esigenze della produzione che ha guardato, prima di tutto, al potenziale commerciale, svilendo ogni poetica di Martin e rubando pathos e carnalità alla forza che poteva invece sprigionarsene vigorosa, castigando ogni afflato mitologico dell’intreccio che, senz’ombra di dubbio, instillandovi maggiore coerenza drammaturgica, doveva magicamente, maggiormente giovarne. Un intreccio perciò macchinoso, farraginoso, ingarbugliato e incagliato nella sua claustrofobica mancanza di respiro. E che andava sviluppato con più coraggio e meno censuranti boicottaggi.

Alcune scene, va sottolineato anche questo per onesta obiettività, sono magniloquenti, pirotecniche, ottimamente fotografate dal compianto Michael Ballhaus. Ma nell’insieme non funzionano quasi mai.

Tornando a Leone, film come Il buono, il brutto, il cattivo profumano di ruspante leggendarietà indimenticabile, e non ci si stanca mai di vederli, mentre Gangs of New York, già alla seconda visione, annoia non poco.

La colonna sonora di Howard Shore è loffia.

E la tanto pubblicizzata canzone dei titoli di coda degli U2 (band rock troppo neomelodica, a mio modesto parere, poco allineabile e accomunabile a un duro come Scorsese), The Hands That Built America, c’entra come i cavoli a merenda.

Insomma, Gangs of New York rimane un film in più punti magistrale, Scorsese è indiscutibilmente, nonostante tutto, Scorsese. Ma è davvero poco appassionante ed emozionante.

Da un film aspettato da oltre trent’anni era lecito attendersi molto di più.

Sì, lo pretendevamo assolutamente.

About Stefano Falotico

Scrittore di numerosissimi romanzi di narrativa, poesia e saggistica, è un cinefilo che non si fa mancare nulla alla sua fame per il Cinema, scrutatore soprattutto a raggi x delle migliori news provenienti da Hollywood e dintorni.

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