Oggi, a quasi un anno due anni di distanza dalla sua limited release sugli schermi americani, recensiamo ancora il film Barriere, da noi invece uscito il 23 Febbraio dell’anno successivo, diretto e interpretato da un eccezionale Denzel Washington.
Candidato a quattro premi Oscar: miglior film, migliore attore protagonista (Washington), miglior sceneggiatura non originale e miglior attrice non protagonista, unica candidatura per cui ha vinto la statuetta, andata a Viola Davis, Barriere è appunto tratto dall’omonimo, celeberrimo testo teatrale del drammaturgo August Wilson, premiato col Pulitzer. E già portato a Teatro dallo stesso Washington e anche da Viola Davis.
Partiamo dal titolo originale, Fences, decisamente più pertinente dell’erronea, approssimativa traduzione barriere.
Fences è semplicemente il plurale inglese di fence, ovvero il recinto, la staccionata. Chiodo fisso, è il caso di dirlo, del personaggio interpretato da Washington, Troy Maxson, un netturbino afroamericano sempre squattrinato che, dopo essersi redento dal suo turbolento passato molto difficile, si è ricostruito una vita, sposando la fedelissima moglie Rose (Davis), casalinga che provvede a servirlo e riverirlo, a preparargli la cena e che, come ogni donna nera dell’epoca, doviziosamente si occupa diligente delle faccende domestiche. Lava, stira e rassetta la modesta casa in cui assieme a Troy vive amorosamente fra mille precarietà economiche. I due hanno un figlio adolescente Cory (Jovan Adepo). E Troy, dalla sua relazione precedente, ha avuto anche Lyons (Russell Hornsby), musicista disoccupato che abita per conto suo ma che, talvolta, torna a far visita a suo padre, soprattutto per chiedergli soldi e poter così soddisfare le sue velleitarie, forse utopiche ambizioni artistiche.
Troy ha pure un fratello menomato e cerebroleso, reso tale per colpa di un esplosivo che, in guerra, gli ha danneggiato il cervello, Gabriel, affettuosamente ribattezzato Gabe (Mykelti Williamson). Gabe è matto, indifeso e Troy compassionevolmente e per puro amore fraterno tenta di proteggerlo come può per salvarlo dalle crudeltà e dalle insidie di un cinico mondo bastardo.
Troy ha infine un amico per la pelle, il suo collega di lavoro Jim Bono. Peraltro suo ex compagno di prigionia, (Stephen McKinley Henderson), un vecchio bianco omaccione che, quando Troy era carcerato, l’ha instradato alla retta via, aiutandolo moralmente a risollevarsi. Un inseparabile amico verso il quale Troy si sente profondamente riconoscente. E con cui beve appassionatamente come una spugna, affogando nell’alcol le delusioni di tutta una vita trascorsa nel rimpianto di essere stato una grande promessa del baseball estromessa dai giochi vincenti per colpa dell’incallito, ostracizzante, inestirpabile razzismo della gente bianca e a causa forse della sua vera mancanza di talento. Una vita anonima e modesta quella di Troy, da duro lavoratore che, per mantenere quel poco ch’è riuscito a conquistarsi col sudore e la fatica, dal lunedì al venerdì è costretto a svegliarsi all’alba e a sporcarsi le mani in mezzo all’olezzante, becera spazzatura.
Una vita di anomie e di certezze fallaci e bilicanti. Ma per Troy arroccarsi nella sua ferrea, disciplinata, ristretta e soffocante, angusta visione del mondo, è forse l’unica, seppur sdrucciolevole e illusoria convinzione vitale per cui riesce a dare un senso alla sua opaca esistenza da perenne emarginato e vinto. Un volitivo, triste eppur combattivo uomo affranto dalle troppe disillusioni che, tenacemente, lotta nella sua anima tormentata da resiliente caparbiamente testardo al fine, nobile quanto sciocco, di non voler sconfiggere almeno il suo intimo amor proprio. Troy, un superbo fallito cialtrone e ciarliero che cela le sue amarezze dietro una sbruffona maschera da cafone pagliaccesco. E copre le sue inesauste lacrime nella facciata di sfacciate, buffe, spericolate euforie en passant.
E sta educando il piccolo Cory alla rigida osservanza di precetti quasi militareschi da padre-padrone gerarca, preoccupato com’è che il figlio, troppo sognatore, possa venir spietatamente deluso da quei bianchi che lui odia e verso i quali nutre un inguaribile rancore atavico.
Ed ecco dunque il significato del film, quel recinto ideologico simboleggiato dalle pale di legno del cortile eretto da Troy, la figurativa palizzata dietro cui Troy si nasconde per paura di essere di nuovo infranto nell’onore e calpestato nell’orticello della sua anima. Impaurito da quella torva signora di nome Morte.
Troy, un’anima nera, assediata da continui demoni interiori che annega nell’alcolismo, nelle risate goliardiche, nelle pose clownesche da attore di una pantomima esistenziale, di una resistenza emotiva destinata, prima o poi, a franare dinanzi alla crudezza potente di una vita che non dà scampo e ti prosciuga, spezza ogni tua residua e chimerica, vana speranza, lasciandoti tramortito, sconfinatamente solo e incupito, ti spella vivo con addosso soltanto l’ombra mortifera del tuo ombroso spaventapasseri perduto, rattrappito nel tuo sdrucito, burlesco fantasma ridicolo.
Barriere è un film bellissimo. Nonostante la sua vertiginosa ma sopportabile caduta di ritmo dell’ultima mezz’ora. In cui diventa prolisso e forse esageratamente verboso. Eppur si risolleva in un finale magico e incantato.
Un film blues. Dal pacato andamento soporifero nel quale Washington, fra monologhi strepitosi e il suo magnetico volto commovente, patetico e poi al solito carismatico, istrionico volteggia straordinario, alternando momenti di solitaria disperazione infinita ad altri in cui, spassosamente, ride delle sue continue disgrazie e, nell’aneddotica delle sue tante storie ripescate dalle tenebre di un personale passato violento, instilla visceralmente al suo Troy un’aura magnificamente romantica da eterno loser dal cuore sgretolato ma giammai arresosi.
Washington, nella sua terza prova da regista, è ben conscio di girare l’adattamento teatrale di una pièce tanto famosa e la sua messa in scena, austera, rigorosissima, è quella di un regista che non vuole strafare affatto con svolazzi e iperboli stilistiche, il suo è l’ammirevole sguardo neorealistico, antico e rustico di uno che gira un onesto kammerspiel ove la macchina da presa, fermissima, si sposta lenta fra pochi, piccoli ambienti, fra interni ed esterni che si ripetono come su un palcoscenico ravvivato e carnalmente insanguinato dalle sue vivissime, funeree, umanissime facce di uomini e donne appartenenti a un mondo lontano, tanto lontano e profondo che ci pare cristallinamente toccante, emozionante, amabile, nostalgicamente importantissimo e prezioso.
Quanto mai dimenticato, eternamente, invincibilmente presente.
Barriere è forse il film più sottovalutato, almeno dalla Critica nostrana, degli ultimi dieci anni.
Signore e signori, Denzel Washington.
Battuto come Best Actor per un soffio da Casey Affleck di Manchester by the Sea agli Oscar.
Peccato. Barriere è il suo film, Barriere è un film da lui molto sentito, l’interpretazione per cui giustamente doveva diventare l’unico attore nero ad aver vinto due Academy Award come protagonista, oltre ovviamente a quello come best supporting actor per Glory.
Ciò non è avvenuto.
Sarà per la prossima volta, mitico Denzel.
Barriere, non un capolavoro ma un grande film che è stato molto apprezzato negli Stati Uniti, come infatti attestato dalle varie candidature agli Oscar e dai voti assai alti della Critica ma che, ahinoi, in Italia è stato preso molto sotto gamba.
Tant’è che Laura e Luisa Morandini, pigliando una cantonata colossale, e non sono loro due, l’hanno platealmente snobbato, limitandosi a questa definizione limitatissima: è proprio l’impianto teatrale che rende difficile la prolissa trasposizione su grande schermo fatta da Washington che parla troppo, dicendo poco, si dilunga in scene estenuanti che sembrano non finire mai, è troppo programmatico nel “messaggio” antirazzista.
Ahia, care Laura e Luisa, dovevate stare più attente.