Ebbene, ancora non sappiamo se l’attesissimo The Irishman di Martin Scorsese sarà pronto per essere presentato entro la fine dell’anno, e dunque potrà gareggiare agli Oscar, oppure per via della massiccia post-produzione, in particolar modo per completare la realizzazione dei sofisticati effetti speciali, la sua uscita, ahinoi, verrà rimandata al 2019.
Quello che sappiamo ovviamente per certo è che il film riunirà ancora una volta due leggende assolute del panorama cinematografico mondiale, due attori rispettivamente definiti the greatest of all time, ovvero Robert De Niro e Al Pacino.
Ma facciamo un doveroso passo indietro per rinfrescarci la memoria. The Irishman sarà il quarto film in cui recitano assieme. Ne Il padrino – Parte II di Francis Ford Coppola non condividevano nessuna scena, in Heat – La sfida di Michael Mann s’incrociavano soltanto due volte, nel celeberrimo tête–à–tête antologico del diner e nel superbo, emozionante finale sulle musiche di Moby. Mentre nel film, di cui vi parlerò nelle seguenti righe, duettano per 101 minuti senza separarsi quasi mai.
Sto parlando di Sfida senza regole, il cui titolo originale è Righteous Kill. Che potremmo tradurre con omicidio virtuoso, giusto, e che certamente è più pertinente della pedestre, banale “traduzione” italiana creata apposta per richiamare appunto il film di Mann, quasi a voler scioccamente sacramentare che De Niro/Pacino sono due attori perennemente rivali sul piano della grandezza recitativa, in eterno scontro duale.
Sfida senza regole è diretto da Jon Avnet e generò molte aspettative attorno a sé, sin da quando appunto la reunion De Niro/Pacino fu annunciata da Variety. Perché i fan dei due mostri sacri si aspettavano un altro film epocale come Heat. E invece si son trovati di fronte a un b movie dal montaggio sincopato, sciattamente girato in fretta e furia, un film fragorosamente bersagliato dalla Critica e assai dimenticabile. E ne sono rimasti cocentemente delusi, oserei dire affranti. Rattristati da questa montagna, che si preannunciava graniticamente maestosa e invece ha partorito un minuscolo topolino.
Chiariamoci, Sfida senza regole è un filmetto, ma non è alla fin fine, rivisto col senno di poi, così disdicevole e dozzinale come si è detto. Perché ci sono loro che giganteggiano, non tanto qui di bravura, ma di squillanti echi reminiscenti la loro intoccabile iconicità.
Jon Avnet, regista comunque di ottimo mestiere, il cui film migliore in assoluto rimane il famoso Pomodori verdi fritti alla fermata del treno, aveva appena diretto Al Pacino in 88 Minutes, ed era fortemente intenzionato a lavorare col suo “diretto concorrente”, Robert De Niro. De Niro accettò di buon grado la sua proposta ma nella sceneggiatura di Russell Gewirtz era previsto un altro personaggio di spicco da affiancare al suo. Inizialmente, il ruolo era stato concepito per un attore molto più giovane di De Niro, ma fu De Niro stesso a proporre ad Avnet un repentino cambio di sceneggiatura, chiedendo espressamente di modificare lo script per far sì che il suo partner fosse Al Pacino. Col quale desiderava immensamente lavorare ancora.
La trama di Sfida senza regole è abbastanza scarna e ordinaria. Due detective della polizia di New York, Thomas “Turk” Cowan (De Niro) e David “Rooster” Fisk (Pacino) sono sulle tracce di uno psicopatico che sta seminando morti à gogo nella Big Apple. Un serial killer le cui vittime preferite sono persone moralmente poco integerrime, macchiatesi di colpe impunite, che tranquillamente gironzolano a piede libero quando invece dovrebbero essere dietro le sbarre. Il “sicario”, in prossimità delle sagome dei cadaveri delle sue vittime, lascia sardonici e canzonatori poemetti in rima, per sigillare beffardamente il suo crimine. Sferzando, con tono arridente, provocazioni a iosa nei confronti dei poliziotti stessi, dei quali par bearsi e che sadicamente schernisce. Perché, nonostante i loro energici sforzi e la loro caccia spietata, non riescono ad acciuffarlo.
Ma questo mostro, che appare irraggiungibile, senza identità, un’ombra furtiva e sfuggente nelle notti al neon di Brooklyn e Little Italy, potrebbe semplicemente celarsi dietro un volto insospettabile, che striscia viscidamente nel buio ma è molto meno invisibile, lontano e inafferrabile di quanto voglia far credere.
Sfida senza regole è tutto qui.
Nel cast, troneggia la bellezza, seppur utilizzata col contagocce, della sempre sexy Carla Gugino, nei panni dell’italoamericana agente della squadra investigativa Karen Corelli, costretta però nell’improbabilissima particina della fiamma del personaggio di De Niro, e impegnata con lui in un paio di goffe e arlecchinesche scene bollenti e sadomasochistiche.
E vede le presenze di John Leguizamo e di Brian Dennehy. Oltre a quella impresentabile di 50 Cent, nei panni del ricco pusher infame e laido che esce di scena in maniera giustamente ingrata.
Russell Gewirtz, autore del bellissimo, ingegnoso e sofisticato Inside Man di Spike Lee, si presta qui svogliatamente al servizio di una vicenda bambinesca e talmente scontata da rasentare la ridicolezza più genialmente folgorante. Ed è questa la ragione che spiega come mai dal 2008, anno appunto di uscita di Sfida senza regole, non abbia più firmato nessuna sceneggiatura.
Eppure, nella sua ovvia imbecillità, la sceneggiatura presenta perfino una manciata di battute ficcanti…
Fotografia granulosa di Denis Lenoir.
De Niro, evidentemente in sovrappeso, appare davvero, citando la frase pronunciata dal personaggio di Pacino, come un Pit bull strafatto di crack, e sfodera i suoi tic espressivi e le sue celebri smorfie, distillandole con quel suo pacioso, inconfondibile mumbling d’attore navigatissimo. Esibendosi perfino in una corsetta affannosa per le vie newyorchesi con tanto di tutina grigio-topo.
Pacino, invece, è emaciato in viso, con gli zigomi tiratissimi e gli occhi spiritati, increspato in capelli tinti sfibrati ma carismaticamente decadentista come la sua sciupata voce roca.
Sfida senza regole è imbastito su di loro, sulla loro mitologia. Il resto sono chiacchiere e distintivo…
Ammirateli gigioneggiare in questo senile loro virtuosismo istrionico da pezzi da novanta comunque sia inscalfibili.
Il resto non conta.
Waiting for The Irishman…