Oggi parliamo di quello che, a mio avviso, è il film migliore tratto da John Grisham. Ovvero La giuria (Runaway Jury), film del 2003, uscito da noi però il 30 Gennaio del 2004, diretto da Gary Fleder (Cosa fare a Denver quando sei morto, Il collezionista, Don’t Say a Word).
Scritto dall’accoppiata Brian Koppelman e David Levien (Il giocatore – Rounders) assieme a Rick Cleveland e Matthew Chapman sulla base, come detto, dell’omonimo legal thriller letterario di Grisham, edito da Mondadori, da cui traiamo la sinossi ufficiale:
Un uomo muore di tumore a causa del fumo. La moglie, stravolta dal dolore, decide allora di sfidare in giudizio una potentissima multinazionale del tabacco, colpevole di produrre le sigarette che hanno lentamente ucciso il suo consorte. L’azienda ricorre a tutti i mezzi a sua disposizione per vincere la causa, ma il giudizio finale rimane incerto, legato alla scelta del dodicesimo giurato, Nicolas Easter, un giovane ex studente di legge dal passato sfuggente e misterioso. Come mai Nicolas fa parte di quella giuria? E, soprattutto, qual è il suo vero scopo?
Ecco, la storia del film di Fleder è pressoché, sostanzialmente identica ma apporta qualche cambiamento decisivo.
Innanzitutto, in questa pellicola di Fleder, la vedova non intenta la causa contro un’industria del tabacco, bensì contro una società che fabbrica armi. Perché suo marito è stato scelleratamente ucciso, assieme ad altri innocenti, in un ufficio di New Orleans, da un uomo che, in seguito al suo licenziamento, è impazzito e ha compiuto una strage per vendicarsi del torto subito.
Al che, questa causa scatena uno dei processi più importanti e difficili degli Stati Uniti d’America.
In difesa della donna, il brillante e stimatissimo avvocato Wendell Rohr (il solito, inappuntabile, bravissimo, compassato little big man Dustin Hoffman).
Dalla parte dei cattivi, invece, la fa da padrona e da sinistro manipolatore lo scafato e cinico consulente di giurie Rankin Fitch (un protervo, torvo e sadico Gene Hackman). Che è ben conscio, dopo anni di veterana esperienza sul campo, di quanto sia fondamentale per il verdetto conclusivo la selezione dei giurati, i quali devono appunto rispondere a determinate caratteristiche precisissime affinché la loro deliberazione finale, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, come dicono gli americani (beyond a reasonable doubt), possa pendere a favore, come nel suo caso, della controaccusa.
Fra i giurati, nonostante le oscure macchinazioni di Fitch dal suo complottistico “dietro le quinte”, viene giocoforza scelto anche l’apparentemente modesto Nicholas Easter (John Cusack), commesso di un negozio di videogames. Che spiazza a sorpresa i suoi interrogatori con alcune risposte che, lasciandoli basiti, annientando i loro studiati, calcolatori propositi, li obbliga ad assoldarlo controvoglia nella giuria.
Nel mezzo, vi è anche una misteriosa donna intraprendente e scaltra che ricatta Fitch, Marlee (Rachel Weisz), per metterlo in difficoltà e far sì che possano traballare e scricchiolare le sue presunte, collaudate certezze. Insomma, per smascherare i suoi biechi trucchi e smontargli il piano ingiustamente criminoso e imparziale da volpone. Dietro l’ingegnoso sotterfugio di Marlee però potrebbe celarsi una rivendicazione atavica…
Come andrà a finire?
Ora, partiamo col dire che la regia di Fleder non è un granché e la sua messa scena, patinata e roboante, è assai banalmente e conformemente in linea con quella tipica tipologia di Cinema a stelle e strisce di quegli anni, sincopata e dal montaggio vertiginosamente ridondante quasi alla Tony Scott, e il film, romanzando Grisham e ingigantendo inverosimilmente gli eventi, propendendo dunque verso un alto tasso di spettacolarizzazione abbastanza consuetudinaria e canonica, esattamente secondo gli accertati, provetti e prevedibili binari mainstreaming e tradizionali di Hollywood, non si discosta tanto, anche per stilemi visivi, per i suoi personaggi vignettistici e stereotipati e per la sua morale melodrammatica e consolatoria, da tanto Cinema pletorico e anche retorico delle medie produzioni di allora. Le pellicola è infatti targata Twentieth Century Fox.
E, da un punto di vista prettamente ermeneutico e cinematografico il film è, sì, appassionante ma molto convenzionale. Con un finale imbarazzante e fiacco.
Eppure, nonostante tali difetti da me appena accennativi, funziona alla grande. Ha ritmo, le sue due lunghe due ore e sette minuti di durata scorrono piacevolissimamente e gli attori sono davvero in forma smagliante. Col titanico confronto inevitabilmente epocale fra i due gigioni, mostri sacri Hackman e Hoffman per la prima volta assieme nella loro rinomata carriera.
– Lei perderà, forse non questo né il prossimo processo ma perderà. Alla fine perderà. Succede sempre a tipi come lei e lo sa perché? Perché tutta questa protervia che si porta dentro diventerà un morbo maligno e lei si ritroverà tutto solo circondato da ombre senza altra compagnia del ricordo di tutte quelle vite umane che ha distrutto. (Wendell Rohr)
– Uhm, un bell’apologo, Wendell. Ed è anche un’altra prova che non può battermi. Perché lei sarà pure nel giusto ma fondamentalmente io me ne sbatto, anzi, me ne sono sbattuto sempre. Ih ih ih, bel completo. (Rankin Fitch)
Cusack, dinanzi a loro, non sfigura e trova uno dei suoi migliori di sempre.
La fotografia di Robert Elswit (premio Oscar per Il petroliere) sa il fatto suo, pur non essendo nulla di trascendentale o particolarmente ricercato, e l’editing di William Steinkamp (La mia Africa, Tootsie, Il socio, Scent of a Woman), pur rimarcandovi ch’è indubbiamente di maniera e troppo frenetico, sa dosare le immagini comunque con eleganza e ottimo mestiere. Un montaggio coi fiocchi!
È inoltre uno dei primi film, se non il primo in assoluto, che ci mostra dall’interno gl’intrallazzi del sistema giuridico-processuale americano e le affaristiche, fredde logiche che determinano la scelta della composizione dei vari membri della giuria.
Chi sceglie i singoli giurati è dapprima la pubblica accusa e poi i difensori.
I giurati non devono avere pregiudizi razziali. Vi faccio un esempio lampante. Se l’imputato è un nero, ovviamente non tutti giurati potranno essere bianchi, considerando soprattutto il fatto che l’America è ancora, ahinoi, una Nazione ove serpeggia, inestirpabile, una mentalità ottusamente segregazionistica.
E devono essere scelte nella giuria persone, appunto, il meno possibilmente pregiudizievoli. Così, se l’accusato è un uomo arbitrariamente “sospettato” di violenza sessuale, nella giuria è preferibile non inserire una sessuofoba bigotta e maniaca religiosa, semmai pure puritana e schizzinosa. Perché sarebbe già prevenuta, a prescindere che l’uomo si sia macchiato o meno di tale esecrabile atto per il quale è incriminato.
Oppure, se l’accusato è dichiaratamente un capitalista repubblicano, sarebbe meglio non avere fra i giudicanti tante persone liberal appartenenti per idee politiche ed etiche all’opposto Partito democratico.
Come si fa a diventare un giurato? Esistono due categorie di candidati. C’è chi lo fa per professione e volontariamente si è iscritto alle liste dei giudici popolari oppure può essere un comune cittadino qualsiasi, scelto a caso sulla base d’un elenco di civiche liste dei comuni o delle tantissime circoscrizioni dello Stato.
La giuria, signore e signori. Un film che, se volessimo classificarlo secondo giochetti di pagellini scolastici, meriterebbe a stento un sette ma che vale molto di più, fosse solo per l’originalità del tema trattato.
E per la classe attoriale del suo strepitoso cast.
Non potete perderlo!
Penultimo di Gene Hackman prima del suo ufficiale ritiro dalle scene.
Il personaggio di Dustin Hoffman ancora una volta è un avvocato schierato dalla parte dei buoni. Da confrontare col suo Danny Snyder di Sleepers.
Su IMDb, parimenti a questa recensione, il suo nome è Wendell, mentre su Wikipedia appare come Wendall.
Guardando il film, anche nella versione originale, è impossibile comprendere se sia in effetti Wendell o Wendall, dato che la pronuncia inglese di entrambi i nomi è identica.