È oggi la volta de L’Avvocato del Diavolo, titolo desunto dalla latina locuzione Advocatus diaboli, espressione idiomatica utilizzata nel diritto canonico che identificava quella particolare figura processuale che metteva ampiamente in discussione le tesi della controparte, obiettandone gli assunti, una persona spesso moralmente ambigua incaricata di demolire la “santità” del rivale candidato.
Quest’idiotismo (attenzione, non idiozia, eh eh), a quanto pare, è notevolmente usato anche negli Stati Uniti, e di solito ciò non avviene perché i modi di dire sono tipici soltanto di alcuni paesi. Essendo il titolo originale di questa pellicola praticamente identico a quello letteralmente tradotto, appunto, per la versione italiana, The Devil’s Advocate.
Film del 1997, molto lungo, della durata un po’ spropositata di due ore e 24 minuti, minutaggio che poco si addice a questo genere di film. Ecco, per la precisione, a che genere di film possiamo annettere L’Avvocato del Diavolo? È il classico esempio di film inclassificabile secondo categorizzazioni standard.
Un pastiche potremmo dire “transgender”, drammatico con picchi horror, un pamphlet satirico sulla società edonistica, un mystery ascrivibile alla tronfia, effettistica, ridondante retorica hollywoodiana puramente mainstreaming o semplicemente una tonitruante, barocca, allegorica e irritante pacchianeria che, nel suo calderone, mesce non sempre elegantemente un po’ tutto, echeggiando di reminiscenze polanskiane estrapolate e pomposamente rielaborate da Rosemary’s Baby, attingendo da Paradiso perduto di John Milton, il cui nome viene ereditato dal personaggio interpretato da Al Pacino, oppure soltanto, su sceneggiatura sgargiantemente kitsch di Tony Gilroy e Jonathan Lemkin, l’adattamento, shakerato e rivisitato con molta fantasia e troppi voli pindarici, dell’omonimo libro di Andrew Neiderman, ch’è a sua volta un legal thriller molto sui generis?
Trama…
Kevin Lomax (Keanu Reeves) è un brillantissimo avvocato della Florida che pare invincibile, non avendo mai perso una causa. Un uomo assai altezzoso, molto sicuro di sé, dalla parlantina persuasiva che, grazie alla sua fina arte oratoria, è riuscito perfino a far assolvere un professore, chiaramente colpevole a vista d’occhio, dall’accusa di molestie sessuali ai danni delle sue studentesse minorenni.
Per la sua millimetrica e geniale infallibilità, Kevin viene dunque contattato dal più grosso e prestigioso studio legale di New York.
Quindi Kevin, assieme alla sua bella moglie, Mary Ann (Charlize Theron), emigra nella Grande Mela ove fa presto conoscenza del proprietario dello studio, John Milton (Al Pacino), un uomo con una voce roca e magniloquente, dai crespi toni melliflui, un uomo di enorme carisma, sempre azzimato, dai modi raffinatamente garbati e dallo sguardo potente ed eloquente. Che declama lapidarie saggezze con la roboante spavalderia di un indefettibile, giudizioso esperto dell’animo umano.
Che diverrà suo mentore e irrinunciabile consigliere nella sua carriera d’avvocato.
Milton però non è un uomo qualsiasi. È nientepopodimeno che il diavolo incarnato, il sinistro e luciferino profeta del nuovo millennio, è Belzebù in abiti riccamente borghesi, il principe satanico di Manhattan che ora desidera da Kevin un figlio, l’Anticristo. Per poter consacrare il suo regno sino all’eternità di questo mondo maledetto e corrotto, insanabilmente degeneratosi nel lusso e nella sfrenata, invereconda lussuria più mefitica, espansione iper-metropolitana del suo stesso totemico, mostruoso Mefistofele sceso in Terra malignamente per depravare gli animi dei puri e per contagiare l’umanità con la sua vanitosa aura ipnoticamente infettiva.
Il regista de L’avvocato del diavolo è Taylor Hackford, un regista di per sé indefinibile e leggermente impersonale. Il regista che ha diretto il romanticissimo Ufficiale e gentiluomo ma anche il kinghiano, profondo L’ultima eclissi, persino lo sbruffone, pagliaccescamente malinconico The Comedian con De Niro, da noi ancora inedito.
Un regista che, in virtù di ciò, non può essere annesso a una lampante poetica cinematografica ineludibilmente inequivocabile. Un regista sperimentatore, coraggioso e di valore, certo, ma indistintamente troppo strampalato e artificioso per poter esser appieno nettamente definito. Troppo imprevedibile affinché lo si possa inquadrare a tutto tondo e attribuirgli l’onorevole definizione di author.
Al Pacino è grande, grandissimo, titanico, una serpe con tanto di viscida linguetta, assolutamente irresistibile. Che gigionescamente e sopra le righe recita interminabili monologhi con superba classe istrionica giustamente caricata e vanagloriosa, come d’altronde esigeva il suo personaggio. E persino la sua sparata finale, folcloristica, arlecchinesca, beffardamente millantatoria da disgraziato ciarlatano infernale, burlona e guascona, non disturba, anzi induce a un godibilissimo divertimento. Una prova attoriale di poderosa smargiasseria fortissima.
Keanu Reeves, da par suo, non gli sfigura affatto e gli tiene testa per tutto l’arco del film, infondendo al suo character sentita, rabbiosa grinta e ammantandolo di caparbia sicumera, sebbene alle volte sia abbastanza inespressivo e appaia a tratti solamente un legnoso performer troppo impettito. Eppur funziona…
Charlize Theron, qui bellissima, era ancora alle prime armi. Molto acerba sebbene stupendamente fotogenica e al turgore del suo venustare fiorente di donna sexy e conturbante.
Ma il film fa acqua da tutte le parti, è prolisso, macchinoso, soffocato da un sacco di simbolismi ridicoli ed eccessivi. Appesantito dal suo esagerato citazionismo rozzo e si auto-arrostisce di troppa carne al fuoco non sapientemente rosolata con gusto. Affastella mille tematiche, le tange ma non ne approfondisce nessuna.
Così, L’avvocato del diavolo è tutto e di più ma risulta anche vuotamente inconsistente, una baldoria visiva abnormemente mal calibrata, una crestomazia irritante di faceta scempiaggine.
Florilegio del meglio e del peggio di Hollywood. Infatti ha incassato, manco a dirlo, benissimo. Perché la gente non ha senso del bello e scambia le grossolanità per allettante grandeur.
Fotografia di Andrzej Bartkowiak.
L’avvocato del diavolo non è né bello né brutto. È una buffa, spassosa, birbantesca, irridente cialtroneria che sovente, gravemente si prende sul serio (e mi fanno ridere perciò quelli che davvero, ah ah, l’hanno scambiato per un film satanista), una furba presa in giro che piacevolmente ammicca al gusto medio-basso dello spettatore meno scafato, stupidamente poco malizioso, più ingenuamente fessacchiotto. Ingannandolo e circuendolo con la stessa balzana, diabolica scaltrezza dialogica sfoggiata da Pacino nelle sue invettive.