Dopo una gestazione infinita e sofferta, vede finalmente le sale La Profezia dell’Armadillo. Diretto da Emanuele Scaringi e prodotto da Fandango, è il debutto del personaggio di Zerocalcare al cinema
I problemi nell’adattare La Profezia dell’Armadillo di Zerocalcare al cinema, a ben guardare, erano parte intrinseca del progetto fin dall’inizio. Guardandosi indietro, sembra di trovarsi di fronte una di quelle mitologiche avventure produttive di una volta, fatte di disastri annunciati e produzioni condannate. Il film di Emanuele Scaringi, neanche tragico in realtà, è però mal concepito in partenza. Il risultato finale non è tanto un lavoro non riuscito, quanto una prevedibile occasione sprecata. Che tradisce ancora una volta la difficoltà non indifferente della nostra industria nel dialogare con altri media. E che, peggio ancora, rischia di chiudere anzitempo le porte del Cinema all’universo di Michele Rech.
L’adattamento di La Profezia dell’Armadillo ha iniziato lentamente a morire dal momento in cui il patrocinante del progetto Valerio Mastandrea passò la mano intorno al 2015 (ufficialmente per assistere Claudio Caligari, agli ultimi mesi di vita, nell’ultimazione di Non Essere Cattivo). Persa la sua guida, iniziò il calvario: il film rimase in sospeso, con i diritti ormai in mano alla Fandango di Domenico Procacci, pronto a partire con o senza i suoi stessi autori. Nel frattempo anche lo stesso Rech, collaboratore alla sceneggiatura di partenza, si chiamò fuori. Forse per esaurito interesse in un’opera in fondo giovanile (il fenomeno Zerocalcare era nel frattempo esploso oltre ogni previsione), forse per screzi mai del tutto confermati. La Profezia dell’Armadillo finì affidato al debuttante Scaringi, e in un certo senso venne su orfano: abbandonato delle stesse figure che avevano messo in piedi il progetto, troppo “grande” per finire accantonato. E alla fine il film si è fatto. Senza che nessuno dei coinvolti, sembrerebbe, sapesse perché.
La non-storia alla base di La Profezia dell’Armadillo è a grandi linee la stessa della graphic novel da cui è tratto. E già questo è un problema. Il fumetto originale, primo lungo dell’autore, è anche il suo più libero a livello strutturale: la classica raccolta di gag e bozzetti comici, qui uniti da un cupo rimosso (una morte) che tinge l’apparente spensieratezza di malinconia. Un po’ lo scheletro di quella che, in lavori più complessi, sarebbe diventata la cifra stilistica dell’autore. Il film di Scaringi si limita a ricalcarne la struttura “spezzettata”, senza porsi problemi di adattamento. La Profezia dell’Armadillo parla dunque di Zero (Simone Liberati), fumettista underground di ventisette anni, e del suo amico Secco (Pietro Castellitto). Vivacchiano a Rebibbia, periferia nord romana, tra precariato e problemi vari. Fino al giorno in cui la morte dell’amica d’infanzia Camille li pone di fronte a vaghi bilanci esistenziali. Particolarità: Zero è consigliato e confrontato da un gigantesco armadillo (Valerio Aprea in costume), sardonica personificazione della sua coscienza.
Cosa funziona in La Profezia dell’Armadillo
In La Profezia dell’Armadillo qualcosa di buono c’è. Per la sua stessa natura di film-minestrone, vive di momenti: ed essendo il materiale di partenza di buon livello, parecchi fanno anche ridere. I due protagonisti sono in parte e ci credono convinti, sia Castellitto come spalla comica che soprattutto Liberati, che riesce nel terribile compito di dare un corpo credibile all’iconico disegno di Zerocalcare. Qualche tormentone, per quanto già sentito (la contrapposizione con la Roma Nord aristocratica, l’essere di sinistra come ossessione al limite del patologico), funziona ancora. Ma il film manca proprio di un centro. E’ un po’ di tutto, e niente.
Perché non guardare La Profezia dell’Armadillo
Come detto, il problema del film che va ora in sala è prima di tutto concettuale. Non si capisce cosa sia, La Profezia dell’Armadillo. Ricalca pedissequo un media diverso, e ne viene fuori un Frankenstein violentemente anti-cinematografico. Parla di mille cose, e di nessuna. Ha spunti per mille storie, e li lascia lì. Il film di Scaringi è un best-of delle tavole più amate di Zerocalcare, più o meno decontestualizzate e messe insieme come una collana di sketch. Ne derivano evidenti errori di pura messa in scena (Laura Morante che pare uscita da un altro film, una condizione proletaria costantemente evocata ma che mai si vede, flashback adolescenziali tra i più raccapriccianti a memoria recente), tutti in qualche modo frutto di un non saper cosa fare, e come trattare con un materiale stratificato come quello di partenza.
Alla fine, più che un Clerks, o un Ecce Bombo, o qualunque altro film generazionale venga in mente, La Profezia dell’Armadillo ricorda in fondo Paz!, lo sciagurato adattamento-omaggio in chiave Zelig ad Andrea Pazienza del 2002. Qui come nel lavoro di De Maria, manca un film, un’identità, una narrazione. In quel caso ci si salvava buttandola sulla celebrazione del defunto. Ma se è lo stesso Zerocalcare a dissociarsi dall’operazione, cosa rimane di questa Profezia? Un paio di sequenze animate (malissimo) che imitano le sue tavole, e due cosplayer, pure bravi, che ripetono una dopo l’altra le battute più amate dai fan.
A simbolico suggello dell’insicurezza complessiva, l’infelice scelta di mettere effettivamente in scena un grottesco Armadillo di polistirolo. Talmente mal riuscito a livello di make-up, supera il patetico e raggiungere l’auto-denigrazione: un manifesto di approssimazione, che pure va nel titolo del film. Un film che deride se stesso senza neanche volerlo.
Cosa farne di La Profezia dell’Armadillo? Non c’è nulla di quello che i fan di Zerocalcare amano del loro vate. Non parla di paura, di lotta, di crescita, di nostalgia, di scontro culturale. Nulla di ciò che, nel bene e nel male, ha fatto di Michele Rech un’icona generazionale. Rimane solo un campionario di gag. Che fanno anche ridere, per carità. Ma dopo cinque anni di lavoro, è troppo poco.