Distribuzione coraggiosa e ultra-limitata per Dark Night, dramma americano ispirato alla Strage di Aurora, in giro per festival dal 2016 e ora nelle sale italiane
Dark Night (USA, 2016) è il terzo film dell’indipendentissimo regista americano Tim Sutton, e quello che ancor più delle due invisibili opere precedenti avrebbe dovuto lanciarlo come nuovo Gus Van Sant (sempre citato da Sutton, qui chiamato in causa nella maniera più diretta). L’operazione è riuscita a metà: Dark Night non ha lasciato indifferenti i pochi che l’hanno visto, ma nonostante la presentazione a Venezia lo scorso 2016 non è riuscito a scatenare quel dibattito mediatico in cui non troppo velatamente sperava. In America è stato pressoché rigettato, in Europa qualche timido apprezzamento è arrivato: ma per un film che si poneva di affrontare apertamente il Massacro di Aurora, forse uno degli eventi di cronaca nera più rilevanti di questo decennio, l’indifferenza generale è stato forse il risultato peggiore.
La strage del 2012 in Dark Night è solo nel (terribile) gioco di parole del titolo. I fatti, ben noti: alla prima di The Dark Knight Rises, lo psicopatico James Holmes, convintosi di essere il Joker del precedente film, si tinge i capelli, si arma di Glock e fucili Remington e ammazza dodici persone nel multisala della cittadina di Aurora, Colorado. Il film dalla vicenda prende furbescamente le distanze, sposta la storia in un sobborgo anonimo simil-californiano, e racconta i giorni immediatamente precedenti alla sparatoria (che nel film, ricordiamolo, è una versione fittizia di quella reale). In Dark Night i protagonisti sono una serie di personaggi, bozzetti per lo più senza nome, che senza saperlo in capo a pochi giorni si ritroveranno alla prima di un non specificato film di Batman. Uno di loro, mentalmente instabile, sta pianificando il massacro. La vita delle future vittime scorre tra frustrazioni, malessere, e l’ignara attesa della morte.
Cosa funziona in Dark Night
Nonostante faccia di tutto per far parlare di sé come del “film su Aurora”, Dark Night è interessato soprattutto alle premesse dell’atto stesso (che rimarrà fuori dal film). L’idea di Sutton sembrerebbe quella di mettere in scena le piccole miserie e nevrosi di quella società intenta a covare assassini. Nel film non c’è violenza, non c’è follia, non c’è Batman. C’è la rappresentazione di un mondo in cui questi elementi sono repressi, e ribollono nell’attesa. L’idea più interessante di Sutton è forse quella di non esplicitare fino al finale quale della mezza dozzina di personaggi depressi e silenziosi sarà l’autore della strage (il veterano di guerra? Il maniaco di internet? Il teppista skater?). Come dire: in questa società, chiunque può diventare il mostro.
La narrazione di Dark Night non è magari all’altezza dei suoi intenti, ma può contare su una messa in scena ipnotica e a suo modo affascinante. Merito di tre quarti della (opinabile) riuscita dell’operazione sta nelle incredibili riprese della straordinaria Direttrice della Fotografia francese Helène Louvart. Una carriera tra Wenders, Clarke e Carax, è lei, un tecnico, il vero asso nella manica del film.
Perché non guardare Dark Night
Il problema insuperabile di Dark Night è che è un film pavido. Nonostante le sue premesse incendiarie, nel film di Sutton manca il vero elemento di disturbo: l’effettiva Strage in sé, con le sue implicazioni e la sua importanza. Aurora non c’è, e con lei scompaiono tutte le provocatorie quanto necessarie considerazioni sui lati oscuri dell’epica superomistica, l’identificazione nelle sue icone oscure, il feticismo ossessivo nel confronti del criminale cool. Un rimosso troppo pesante in seno alla showbiz americano, che infatti fatica ad affrontarlo.
Dark Night schiva ogni controversia scegliendo invece la via dell’apologo morale. L’opera intera si pone al centro di quella intellettuale e inoffensiva corrente battezzabile come il nuovo cinema del dolore. Dark Night ne è una bandiera: film basati interamente su algide e pseudo-naturalistiche riprese di gente che soffre in silenzio per un qualche tipo di disagio interiore. Le motivazioni sono vaghe e quasi mai esplicitate, la cifra stilistica consiste nella cinepresa inchiodata al volto smorto dei protagonisti e nel piano sequenza di diversi minuti mentre questi compiono azioni quotidiane. Ogni tanto qualcuno caccia un urlo disperato o rompe qualche oggetto nella stanza, a sfogare il dolore covato. Poco altro. Ogni spettatore da festival ha imparato a conoscere questi film, e in Dark Night non troverà molto di più: una classica omelia puritana USA sui pericoli e la vacuità della gioventù moderna (i videogiochi alienanti, i selfie, ecc), in una serie di inquadrature suggestive e pittoriche.
Ambizioso e provocatorio negli intenti quanto semplicista nella riuscita, Dark Night rifugge il terreno difficile del film di denuncia e si fa raccontino morale sui mali della società. Conta su una messa in scena affascinante e ossessiva, che nel complesso riesce a tenere insieme un prodotto ben più generico di quanto dovrebbe. Ma Elephant è lontanissimo.