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BlacKkKlansman, recensione del ritorno di Spike Lee al cinema di denuncia

Successo strepitoso in America, BlacKkKlansman segna il ritorno all’apice di Spike Lee dopo un decennio di appannamento. Prodotto da Jason Blum e Jordan Peele, in Italia dal 28 settembre

BlacKkKlansman ha rimesso Spike Lee sulla mappa dopo chissà quanto tempo. Quando era stata l’ultima volta che un lavoro del regista americano aveva superato le barriere dell’Atlantico, raggiunto un pubblico trasversale, alimentato un dibattito vero come pure da sempre il suo autore vorrebbe? Forse il discusso Miracolo a Sant’Anna (2009), o addirittura il precedente Inside Man (2006). Per alcuni, bisogna tornare persino a La 25esima Ora (2002), per ritrovare uno Spike Lee rilevante al livello del proprio nome.

BlacKkKlansman ha ovviato a questa necessità. In questi anni l’America sente più che mai il bisogno di riscoprire un certo cinema civile, una coscienza interna che da troppo tempo era scomparsa dall’industria. A resuscitare l’ex wonder boy del cinema politico USA ci ha dovuto pensare un nuovo arrivato: quel Jordan Peele autore del travolgente Get Out dello scorso anno, che in coppia con il demiurgo Jason Blum ha opzionato la storia di Ron Stallworth, e strappato il vecchio Spike alla sua routine di lezioni universitarie e promo per i Knicks per dirigerla. Operazione che ha pagato: cinquanta milioni in patria, plauso generale, più di uno sguardo agli Oscar. E Spike Lee, di nuovo sulla mappa.

La storia (vera) di BlacKkKlansman è una piccola leggenda. Nel 1972 la recluta di polizia Ron Stallworth (John David Washington), primo agente afroamericano di Colorado Springs, organizza da solo una folle operazione sotto copertura volta a sorvegliare la colonna locale del Ku Klux Klan. Ad assisterlo sarà il riluttante Flip Zimmerman (Adam Driver), “volto” bianco dell’operazione e infiltrato per conto di Stallworth. Sono gli anni delle battaglie per i diritti civili e delle proteste studentesche, dei Black Panther e dell’orgoglio nero: l’odio e il rancore delle fasce povere white trash monta, e le voci di un attentato imminente si rincorrono.

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Cosa funziona in BlacKkKlansman

BlacKkKlansman fornisce un elegante compromesso alle due anime di Spike Lee. C’è, finalmente, il lucido e intransigente analista della race thing americana: l’ossessione wasp per un primato sociale ed economico sempre più in pericolo, l’ignoranza autolesionista di alcuni membri della comunità afroamericana, la rappresentazione mediatica come nido dell’odio. Ma c’è anche lo Spike Lee post-Inside Man: quello che ha (ri)scoperto il genere, la voglia di divertire, che vuole finalmente giocare con l’azione, la suspance, la love-story, e perché no l’odiatissimo blaxploitation. E’ lo Spike Lee di vent’anni fa, emerso dal congelatore e per la prima volta a suo agio con il contemporaneo. Non si può più rinunciare all’intrattenimento, e Lee confeziona un film di genere, un buddy-cop movimentato e venato di commedia, con attori clamorosi (Adam Driver irraggiungibile) e un liberatorio lieto fine.

Ma le chicche vere di BlacKkKlansman stanno sullo sfondo. La ricostruzione dei collettivi black power studenteschi dei settanta, dove il giovane Spike si è formato e che ricorda bene. L’idealismo di una generazione di afroamericani per la prima volta consapevoli del proprio potere, e determinati a colpire quella cultura di regime bianca-schiavista mai prima di allora messa in discussione (durissime le scene dedicate a Birth of a Nation di Griffith). E la certezza che quelle battaglie non sono concluse, la nostalgia non c’entra, e che la sua storia può parlare del presente quanto e più di quanto non parli del passato.

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Perché non guardare BlacKkKlansman

In BlacKkKlansman si ritrovano le qualità di Spike Lee quanto se ne ritrovano i difetti. Oggi come allora Lee è esagerato,  pontificatore, un pontificatore aggressivo che sa di aver ragione e lo stesso urla più forte di tutti. Vuole prendere il suo pubblico per sfinimento, e i sistematici 130 minuti di durata sono giustificati solo in parte. In questo senso, Peele avrebbe potuto spingere per asciugare: è un film quasi epico, ma la piccola storia che racconta non lo è. E la confezione da kolossal rischia di annegare gli spunti migliori nel minutaggio.

C’è infine il controsenso dello scrivere un film sull’orgoglio nero e sulla presa di posizione contro il cuore marcio dello Stato americano, e poi proporre come unico personaggio veramente interessante, dotato di arco narrativo e maturazione, un co-protagonista bianco: quello di Driver è il vero eroe del film, il più complesso, quello messo in gioco in prima persona. E finisce paradossalmente per mettere in ombra lo stesso Stallworth, trasformando BlacKkKlansman nel racconto di redenzione di un bianco. Il tipo di errore che la critica americana di solito non perdona. Ma per il ritorno di Lee si è chiuso un occhio.

Il successo di BlacKkKlansman è già decretato, e la sua uscita al di fuori degli USA è pura formalità. E’ un film contemporaneo e importante, come lo erano le prime opere del suo autore vent’anni fa. Ma è anche un abile prodotto di intrattenimento, astutamente a metà tra la commedia poliziesca e il film di denuncia. L’unica incarnazione possibile per la poetica di Spike Lee nel 2018.

Regia: Spike Lee Con: John David Washington, Adam Driver, Laura Harrier, Topher Grace, Ryan Eggold Anno: 2018 Nazione: USA Distribuzione: Universal Picture Durata: 128 min

About Saverio Felici

(Roma, 1993) Lavora nei campi dell'editoria e della produzione audiovisiva. Scrive e collabora tra gli altri con Point Blank, Nocturno e Cineforum.

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