In uscita Veleno, secondo lungometraggio del documentarista Diego Olivares. Dramma sociale e familiare nelle terre del fuoco piegate dai business dello smaltimento rifiuti tossici.
Non si vince niente ad evidenziare le numerose affinità di ambientazione, personaggi, estetica, stile e sguardo tra Veleno ed il progetto Gomorra. La presenza di una matrice così marcata e plateale in un prodotto di intrattenimento a largo consumo quale l’opera seconda di Diego Olivares senz’altro è, non fa altro che evidenziare ulteriormente, come se ce ne fosse ancora bisogno, l’importanza incalcolabile che il colossale lavoro crossmediale targato Saviano-Garrone-Sollima ha avuto in questi anni nell’industria pop italiana. Veleno, Anime Nere, Perez, Falchi e dozzine di altri: tutti prodotti figli di un immaginario nuovo, forte ed inesplorato, che le case di produzione non hanno più paura di affrontare a viso aperto. A costo di incagliarsi, per calcolo o per pigrizia, nel pantano stucchevole dei cliché.
In due righe, Veleno racconta di due vasti nuclei familiari (uno contadino e “onesto”, l’altro politico e criminale) in lotta per un terreno agricolo nel casertano. I campi apparterrebbero ai fratelli Cosimo ed Ezio e rispettive consorti, ma l’avvocato e politicante Caradonna, legato suo malgrado al clan locale da vincoli di sangue, intende rilevare la tenuta a scopo smaltimento rifiuti tossici. Business milionario che già sta avvelenando le terre contese.
Veleno allarga dunque non senza una certa ambizione la sua premessa da serial televisivo, provando ad affrancare tale racconto dalla sua naturale origine noir, per trasmigrarlo sui terreni più accessibili del dramma popolare, tra la sceneggiata e il melò neorealista.
L’impianto televisvo, croce e delizia di Veleno, ne è il principale punto di interesse. Ciò che ad Olivares manca in potenza espressiva, si compensa su un piano narrativo densissimo e appagante; nei suoi cento minuti scarsi, il lungometraggio accumula personaggi e sottotrame come se invece disponesse di dieci episodi da cinquanta minuti l’uno. Sul piano della tenuta, il risultato è sorprendente. Non c’è (quasi) un solo personaggio debole, e nella quasi ingiustificata profusione di eventi è impossibile non trovare almeno un volto o una storia capace di giustificare la visione. Le perle sono forse l’intensissimo Gallo e la sempre incredibile faccia di Nando Paone, vero caratterista d’altri tempi. Ma pretendono attenzione anche le donne del racconto, guidate dalla sciroccata Rosaria di Luisa Ranieri (che si guadagna la locandina), e la vera star di Veleno, quel Salvatore Esposito che passo dopo passo prova ad affrancarsi dalle tute e il dialetto stretto di Genny Svastano.
Veleno è allora a tenuta stagna: la storia è forte, l’ambientazione reclama attenzione, il tono “morale” è quello giusto. Persino le scene secondarie e di raccordo reggono: vedere i ragazzini che puntellano il film, credibilissimi con i loro smartphone e l’aria annoiata mentre gironzolano per le campagne. Film più ambiziosi avrebbero scivolato, qui la naturalezza è lodevole.
Certo, arrivati al finale non tutto torna. L’impianto televisivo di cui sopra impedisce il formarsi di un climax vero, e il film scioglie le sue storie in punta di piedi, sullo stesso tono con cui le aveva avviate. Solido, competente, blando. Bello ma mai bellissimo.
Commento Finale - 65%
65%
Veleno prende un ampio racconto di matrice televisiva e lo comprime diligentemente in un solido melodramma sociale e criminale.Tentacolare e appassionante, ma piatto nel complesso.