MINDHUNTER : Ci troviamo di fronte al capolavoro che la Critica, in maniera unanime, sta acclamando?
Oppure siamo di fronte all’ennesima furbata di Fincher? Capitemi bene, ho in auge David Fincher, credo che la sua filmografia sia emblematica della sua “scienza comportamentale” da regista oramai ascritto alla sua peculiarità, da cui credo farà fatica a distaccarsene. Da Seven a Zodiac, quest’uomo ha descritto in maniera appassionante la figura del serial killer, se n’è addentrato con precisione millimetrica e ha eviscerato emozioni cinematografiche di perlacea potenza. Se nel primo si “limitava” a un thriller al cardiopalma che ha fatto scuola, nel suo susseguirsi di colpi di scena, nella “mannaia” dell’omicida luciferino di Spacey che inanellava crimini brutali seguendo con maniacalità i peccati capitali da lui filtrati secondo la sua perversione oscena, nel secondo stupiva e spiazzava tutti, spostando decisamente l’azione, quindi la non azione, sulla pura detection, scovando nelle anime degli investigatori e, dopo la prima mezz’ora iniziale che lasciava presagire che ci trovassimo di fronte a un altro lineare film sull’omicida seriale, detronizzava le nostre aspettative, concentrandosi quasi esclusivamente, come detto, sulla storia dell’indagine. Non badando molto ad altro, un film a suo modo unico, proprio in virtù del fatto che la sua principale e originale virtù è stata lo scrupolo con cui Fincher ha indagato egli stesso fra le pieghe emozionali degli investigatori. A mio avviso, la sua opera migliore, così stupendamente imperfetta da lasciar allibiti per la sua formalità morbida, per quelle notti lugubri, da lupi, da “bevute” in inquadrature studiatissime, meticolose come la puntigliosità degli omicidi stessi.
Fincher arriva con MINDHUNTER, ed è clamore. Parlo ancora da profano, avendo visto solo la prima puntata. Siamo decisamente agli inizi, tutto è da compiersi, ma veniamo preparati come quegli studenti acerbi che si vedono qui e che gironzolano spaesati. Al che, fa capolino Quel pomeriggio di un giorno da cani, e rifulge quel Pacino criminale che tanto criminale non è, perché da lì, da questo Sidney Lumet si parte per spiegare, semplicisticamente obietterà qualcuno, ciò che scatena non solo il facile movente ma la ragione umanissima che induce chi studia criminologia a voler razionalizzare la cosiddetta “devianza”.
Il nostro agente federale è un idealista che pretende di capire i criminali e non capisce invece la sua fidanzata, quindi è all’apparenza un ingenuo, ma è animato da una voglia di conoscenza da rendere onore alla sua borghese divisa da uomo “normale”.
Nel finale, si affianca a un tipo tosto, rude nei modi, fumatore incallito, disilluso e ancor però sorseggiante, come il nostro golden boy, il desiderio di far chiarezza sui meandri della psiche umana.
David Lynch avrebbe scelto per MINDHUNTER una strada delirante e la serie sarebbe stata un rebus onirico d’immane suggestione filosofica. Avrebbe trasceso le più mere, scolastiche spiegazioni per allestire un “gioco” di specchi labirintico basato tutto sulle suggestioni. Ma Fincher non è Lynch, non vuole esserlo, è uno che non vuole rivoluzionare nulla, o forse sì, e allora insiste con dialoghi verbosi, con interni perfettamente bilanciati nella macchina da presa di una sceneggiatura che spiega tutto e al contempo non (si) dà spiegazioni. Che incede, insinuando dubbi, accumulando in un’ora domande dostoevskijane così incognitamente affascinanti che si possono realizzare tutte le stagioni che vuoi, giocandoci intorno.
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