The Meyerowitz Stories (New and Selected): Eccolo là l’ultimo film di Noah Baumbach, in Concorso a Cannes, dove ha riscosso consensi e plausi sperticati quanto una sonora bocciatura da una Critica che davvero difficilmente digerisce il minimalismo radical chic di un autore strampalato, ossessionato dai soliti temi tanto da essere noioso, pedante, auto-citazionista, perfino dimenticabile per troppa sobria, impalpabile “leggerezza”.
Questo è il compendio, l’excursus sintetizzato e cesellato di una “normale” famiglia di Manhattan, afflitta da un patriarca che per tutta la vita ha inseguito vanamente il successo, scontrandosi forse con la sua mediocrità e la sua sottile logorrea tanto acuta quanto menefreghista dei sentimenti del prossimo, ripiegata nel suo essere sempre stonato, “suonato”, un povero Diavolo che non sa donare reale affetto ed è ripiegato soltanto nei suoi patetici dilemmi, improntato alla venerazione di un sé stesso che probabilmente non si piace e stancamente, in questa senilità intellettuale, si trascina, mangiando in qualche locanda altolocata e illudendosi di vivere allegramente-andante nell’apatia d’una monotonia mentale in cui recita il ruolo del padrone indispettente, un personaggio bislacco che passeggia nelle notti lapidarie di grattacieli di vetro e fra chiese protestanti del suo perenne protestare, anche la sua stanchezza, in un mondo ove i figli cercano un contatto che non avviene, ove le dinamiche appunto paterne e generazionali si scontrano giocoforza con la sua stessa burbera inadempienza al suo compito genitoriale, un padre onnipresente eppur “assenteista” nei riguardi del sangue del suo sangue, che sogna che un’agognata inaugurazione possa concedergli quella patente di grande artista per cui s’è prodigato con sacrificio, sacrificando forse il valore della vera, sentita, mai davvero offerta paternità.
In The Meyerowitz Stories non succede nulla e succede tutto, come in ogni film di Baumbach, una commedia drammatica raffinata che gioca rapida e lentissima allo stesso tempo sui dialoghi schietti, velocissimi, fendenti alle loro e nostre anime indaffarate a spezzettarsi in questa traiettoria mesta d’una trama senza apparente storia, fatta di battibecchi, impostata sulla levità delle ovvietà, sulla scontatezza di una profonda scontentezza mascherata in sketch tragicomici, sospesa con brio anche fra canzoni infantili, diluita nell’intelaiatura stratificata di un’armonia famigliare sempre sul punto di collassare, d’interrompersi, di franare sotto il peso delle sue ambizioni, fustigate, troppo controllate, così come la compostezza registica di Baumbach erompe frammentaria d’episodi intervallati da quadri alla Wes Anderson. Sì, il film naviga fra due sponde emulate, involontariamente s’intende, di due maestri come Woody Allen, un Woody Allen meno comico, però più crudelmente umoristico, e l’Anderson dell’eleganza più asciutta, sin troppo, pregno dell’amarezza esistenziale dei suoi Tenembaum a noi eternamente cari.
Che dire di questo The Meyerowitz Stories? Hoffman svetta senza sforzarsi neanche troppo, un “idiota” fra alto borghesi messi peggio di lui, Sandler conferma di poter essere sorprendente quando diventa vulnerabile, quando il suo corpaccione sghembo si fa anima con un personaggio tenero quanto patetico, Stiller è la faccia giusta del vincente con moderazione, coi suoi inevitabili problemi e conflitti mai risolti, e ove la Thompson, nelle poche scene in cui compare, gioca con mirabile gusto al ruolo di matrigna eccentrica, decisamente pazzerella, “macchiettizzando” una figura di donna anche lei, come gli altri, incompleta, sba(n)data nei suoi umori imprevedibili, che vive e appieno poi non (si) vive.
Tutto funziona, però onestamente anche tedia nella sua superflua, invisibile “profondità”.
Per i fan del regista, comunque, un film bellissimo. Per me, meno.