I ragazzacci francesi di A L’Interieur approdano al mainstream con Leatherface, origin story del leggendario Faccia di Cuoio inventato nel 1974 da Tobe Hooper. Al cinema dal 15/9.
Leatherface (USA, 2017) è il quarto tassello ufficiale nella saga del Texas Chainsaw Massacre per quanto riguarda questo millennio. Il tempo dei sequel è finito nei ’90, viviamo in quello del reboot continuo. Dal 2003 ad oggi, Leatherface ha “ricominciato” tre volte. Questa è la quarta, nonché seconda a vederlo bambino. Julien Maury e Alexandre Bustillo, come gli altri prima di loro, fanno tabula rasa, e raccontano da zero la loro versione della storia del Frankenstein redneck.
Tobe Hooper è morto, evviva Tobe Hooper. Non Aprite Quella Porta è forse l’horror più frainteso di sempre: dove la nerissima satira tipicamente ’70 alla base rappresentava l’incubo violento e distorto del rimosso americano (i contadini del Sud dimenticati e impoveriti, ridotti all’incesto e al cannibalismo), la percezione della serie ha invece imposto un immaginario di slasher grezzo e spensierato, in antitesi con la rigorosità realistica del prototipo.
Una infelice scelta del destino ha fatto sì che Leatherface cominciasse a diffondere il proprio materiale negli stessi giorni della morte del suo demiurgo, e la produzione ha astutamente giostrato per vendere il film come omaggio e celebrazione del Maestro defunto (in realtà Leatherface era già pronto da un pezzo, e l’impatto di Hooper pari a zero). Considerando quanto inutili e annacquati fossero poi i precedenti rifacimenti, era giustificato il fastidio che circondava questa proposta, che pure poteva contare su due (ex?) ragazzi prodigio in regia. Diciamolo a gran voce, allora, che Leatherface non è niente male.
Leatherface e la sua origin story, dicevamo. Il giovane Jedidiah Sawyer viene portato via dalla folle famiglia di appartenenza, sospettata di un po’ tutte le aberrazioni possibili nella sua isolata fattoria del Texas (set bulgaro). Gli viene cambiato il nome, e finisce rinchiuso nel manicomio criminale dell’inquietante Dottor Lang (Chris Adamson). Gli anni passano, la follia cresce, e una bella notte la rivolta esplode: l’orda di mentecatti sudisti si ribella agli aguzzini ed evade in massa dall’asylum. Un gruppetto formato dal violento Ike (James Bloor), l’ipersessuata e ustionata Clarice (Jessica Madsen), il remissivo Jackson (Sam Strike), il gigante ritardato Bud (Sam Coleman) e l’infermierina-ostaggio Lizzy (Vanessa Grasse) tenta una rocambolesca fuga della disperazione verso il Messico. Uno di questi è destinato all’iconica maschera di cuoio umano, ma non sappiamo chi. Dietro di loro, il sadico sceriffo Hartman (Stephen Dorff) insegue con un conto aperto.
Ansiosi di distaccarsi dalla struttura classica, ma necessitando Leatherface di riallacciarsi al prototipo, Maury e Bustillo vanno a rifarsi all’unica opera di questo millennio che abbia aggiunto qualcosa di significativo al mito del Texas Chainsaw Massacre: il dittico di omaggi 2003-2005 firmati da Rob Zombie. Leatherface è spudoratamente quanto serenamente un remake di The Devil’s Rejects. E la rielaborazione nostalgica di Zombie diventa punto di partenza per narrare l’origine del mito stesso. Una struttura di rifacimenti circolare, in cui l’epilogo post-moderno diventa paradossalmente genesi e prologo della storia passata. Il Nastro di Möbius definitivo del processo Film-Sequel-Remake-Reboot.
Rispetto all’opera ispiratrice, Leatherface è assai più generalista e meno disturbante, più tongue-in-cheek e meno provocatorio. L’apice creativo lo raggiunge in partenza, con la lunga sequenza della rivolta nel manicomio degli orrori. Un vero incubo delirante e violento, addirittura virtuoso nel gestire i vari piani visivi della sommossa. Poi i binari diventano quelli previsti e le sorprese latitano. Si tenta maldestramente di sorprendere celando l’identità del futuro Faccia di Cuoio, ma il ruolo decisivo sarà affidato al personaggio più moscio del mazzo. Se la scrittura è pigra però, Maury e Bustillo sono carichi: lo splatter è tanto ed esagerato, matto il giusto per divertirsi ma non perverso al punto da sconvolgere lo spettatore occasionale (meno che mai l’appassionato). C’è tortura, necrofilia, sangue finto a spruzzi come in questi anni sembra vietato per legge (fare il raffronto con Amityville!). Tutto però con il tono giocherellone di chi in fondo vuol far passare ai suoi spettatori novanta minuti ad urlare e tirare popcorn allo schermo, che è lo spirito che dovrebbe animare ogni horror mainstream.
Il cast per parte sua si divide tra tronchi di inespressività clamorosi (lo sbagliatissimo Dorff, i due “buoni” della brigata infernale in cui ci si dovrebbe immedesimare) ed istrioni in overacting fuori di testa (più o meno tutti gli altri). Nel gruppo spicca la ghignante Jessica Madsen; Lili Taylor porta mestiere e solidità in un ruolo importante.
Non entrerà nella storia del genere, e difficilmente avrebbe impressionato quel vecchio genio morto troppo presto per assistere all’ennesimo ritorno della sua creatura. Ma può fregiarsi a testa alta del titolo di Miglior Non Aprite Quella Porta del 2000. Nel suo piccolo, un traguardo importante.
Commento Finale - 70%
70%
Molto splatter, molto ironico, disturbante il giusto, divertente molto. Maury e Bustillo sono la scelta giusta per Leatherface, ennsima origin story della creatura di Tobe Hooper. Stavolta superiore.