Dal 29 giugno, distribuzione limitata per L’Infanzia di un Capo, sorprendente film d’esordio alla regia dell’attore Brady Corbet. Dramma storico e psicologico in interni con Liam Cunningham, Berenice Bejo e Robert Pattinson.
Due anni ci sono voluti, ma per vedere un’opera del genere su grande schermo è valsa la pena aspettare. Presentato a Venezia nel 2015 spaccando in due la critica (Premio Orizzonti), The Childhood of a Leader diventa L’Infanzia di un Capo, si smarca da un destino segnato da direct-to-video e passaggi alle due del mattino su Rai3, e approda in sala con la spinta di Fil Rouge Media.
Dunque: L’Infanzia di un Capo, 2015, diretto dall’esordiente Brady Corbet, volto noto di un certo cinema mitteleuropeo (Haneke, Von Trier) a cui l’opera in questione deve non poco. Budget risicatissimo (3 milioni) ma spremuto in scena fino all’ultimo centesimo, attori famosi a paga decurtata pur di partecipare. Juliette Binoche in fuga dal progetto perché “troppo cupo”. Racconto di Sartre alla base (in comune il titolo e poco altro in realtà), recitato in francese e inglese.
Di cosa si sta parlando?
Anno 1919, ultimi fuochi del primo conflitto mondiale. Un diplomatico del Presidente Usa Woodrow Wilson (Liam Cunningham) arriva nella selvaggia campagna parigina accompagnato dalla moglie (Berenice Bejo), aristocratica locale, e dal figlioletto Prescott. Il compito del patriarca è stipulare, in segreto, i primi accordi preparatori in vista dell’imminente Trattato di Versailles. Lo yankee non ama la cupa e decadente aria della Vecchia Europa. La frigida e glaciale consorte sembra disprezzare la terra natia. La presenza di un amico giornalista britannico (Robert Pattinson) si fa invadente. E a soffrirne più di tutti è il piccolo Prescott: pulsioni feroci e animalesche animano il tormentato e oppresso infante dal capello ambiguamente femmineo. Pulsioni violente, sessuali, anarcoidi. Il soggiorno nella villa di campagna ne scandirà lo svilupparsi della personalità.
L’Infanzia di un Capo è un’opera prima, il che ci predispone ad alcune attenuanti in merito ai difetti più evidenti (ci arriviamo), lasciandoci invece colpiti per le molte cose che non solo funzionano, ma arrivano a sbalordire.
Visivamente, The Childhood of a Leader è semplicemente impressionante. Perché giocare al non detto, si sarà ripetuto Corbet? E’ quello che fanno tutti. E allora il film prende vita come un incubo pittorico fatto di ombre e candele, campagna gotica, casali contadini di legna, fango, cieli coperti e foreste opprimenti. Aiutato da un suggestivo e singolare formato in 1.66 : 1, il direttore della fotografia Lol Crawley mette in scena un personale capolavoro. Raramente l’illuminazione al naturale ha sortito effetti così immersivi e visionari in un film in costume. I movimenti di macchina sono sinuosi, striscianti, da film dell’orrore più che da dramma storico (chi ha visto il contemporaneo The Witch sarà colpito dalle somiglianze tecniche).
La voglia di stupire ed imprimersi nella mente dello spettatore è l’elemento più forte di L’Infanzia di un Capo. E’ un approccio forse immaturo, ma i mezzi non lo sono. E la titanica colonna sonora (Scott Walker, notevole) è specchio di questa ambizione, sempre in bilico tra il barocco più delirante e la cacofonia facile e stucchevole.
Tanto L’Infanzia di un Capo è potente visivamente, così vacilla sotto le proprie ambizioni tematiche. C’è un film bellissimo a cui stiamo assistendo, ma è un film che non basta al suo stesso megalomane autore. E allora tutta la goffaggine di Corbet emerge nell’inutile e telefonato epilogo, che sposta il senso del film dallo splendido racconto poetico-psicologico sulla nascita dell’infanzia ribelle nel clima della repressione familiare, religiosa e sessuale (immagini rimabudiane: Prescott che allunga la mano sul seno della giovane governante, i denti digrignati davanti al prete, lo studio solitario nella propria camera buia), ad un più banale apologo sociale facilmente ascrivibile al sotto-sotto-genere “psicanalisi del criminale di guerra”.
I modelli allora diventano evidenti, e ingombranti: dal Conformista di Bertolucci, alla trilogia del potere di Sokurov, fino naturalmente al Nastro Bianco di Michael Haneke, di cui L’Infanzia di un Capo si rivela in fin dei conti una specie di grezzo remake sotto acidi. L’associazione implicita tra la repressa ferocia di Prescott e l’orrore adulto e Storico che da essa nascerà è evidente fin dal titolo e dalla bellissima locandina (vedere sopra). Perché esplicitarla dunque, in un finale così urlato ed enfatico, come se al pubblico rischiasse di sfuggire il vero significato dell’opera? Il risultato è uno sminuire più che un elevare, ostentando un twist narrativo che twist non è, ma un calcare la mano fin quasi a strappare il foglio.
Rimane però un film da vedere, goffo e sproporzionato, ma a tratti sconvolgente per potenza espressiva. Affinare i toni in vista dell’opera seconda, e avremo un Regista.
Commento Finale - 75%
75%
Opera prima da segnalare, L'Infanzia di un Capo è visivamente titanico nel mettere in scena un racconto psicologico dalla potenza pittorica sorprendente, ma meno centrato e più scolastico nel tentativo di analisi storica.