Michael Haneke torna nelle sale italiane dal 30 novembre con Happy End, il suo nuovo lungometraggio in cui si ritaglia il suo spazio nell’acida e satirica analisi della borghesia contemporanea, mettendone crudelmente in mostra la banalità e l’ipocrisia.
Happy End segue le vicende di una famiglia dell’alta borghesia nella cittadina del Nord della Francia, Calais. Il capo famiglia ha fondato un’azienda di cui ora sono a capo sua figlia e il nipote ribelle. I due componenti dovranno risolvere dei problemi sorti dopo un incidente verificatosi sul posto di lavoro, che ha causato la morte di una persona. Nel frattempo il fratello della donna si risposa per la seconda volta e inizia ad avere problemi con la figlia avuta dal primo matrimonio che viene affidata al padre dopo che la madre viene ricoverata.
Cosa funziona in Happy End
Il distanziamento ironico e una messinscena severa e fredda, che contraddistingue da sempre lo stile del regista, costituiscono il filtro per impedire allo spettatore un coinvolgimento diretto con gli eventi narrati, che vengono spesso ridicolizzati o comunque privati di qualunque dignità e consapevolezza di sé. Il cineasta austriaco riesce a trovare i volti giusti per i suoi personaggi. Li ama, e si vede, nella loro forma, nelle rughe e nelle imperfezioni.
Perché non guardare Happy End
Nel tentativo di dare corpo alla cecità contemporanea che tutti affligge, quel guardarsi intorno senza vedere davvero nel baluginare di troppi stimoli e troppe informazioni, finisce per raffreddare eccessivamente anche il suo sguardo, svuotandolo. La narrazione a tratti è sconnessa, troppo distaccata, e l’utilità di alcune sequenze si perde, minando la compattezza del risultato.
Mixando sarcasmo, disillusione, condanna Happy End è un film che spinge lo spettatore a fare uno sforzo per comprendere il messaggio che l’autore vuole far arrivare. Un film bellissimo da vedere, ma di una bellezza sterile, sicura, che non si assume rischi. E tra un incipit fulminante e un bellissimo finale il ritmo si perde e il vuoto si fa un po’ troppo pervasivo.