Dopo una gestazione infinita, arriva finalmente in sala The Greatest Showman, opera prima di Michael Gracey ma soprattutto di Hugh Jackman, protagonista assoluto e padrino del progetto. Dal 25 dicembre.
Si parlava di The Greatest Showman da molto. I primi segnali di un progetto su vita e opere di Phineas T. Barnum risalgono al 2009: otto anni ci sono voluti per vedere il lavoro di Michael Gracey, debuttante regista di spot australiano e garanzia di minor intralcio possibile alla produzione. Hugh Jackman credeva nel progetto dall’inizio, poi una serie di insuccessi della star hanno rallentato gli ingranaggi, e l’elemento musical sembrava aver frenato i produttori. Almeno fino allo scorso anno: l’aria oggi è cambiata, la gente ha di nuovo voglia di canzoni e coreografie. Questo Natale si va in sala.
The Greatest Showman, come da tempo anticipato, narra della vita del succitato Barnum. Semisconosciuto in Europa, il personaggio è una leggenda in America: capitalista astuto e sfrenato, fu tra i primi ad intuire le potenzialità più morbose dell’intrattenimento su vasta scala. Freak, personaggi esotici, numeri pericolosi, voyeurismo e moltissima esagerazione mediatica: Barnum comprese lo show business come lo si intende oggi, ed il film ne racconta le vicissitudini.
Nella romanzatissima storia di The Greatest Showman, il protagonista mette insieme la sua attività per amore di sua moglie Charity (Michelle Wiliams). L’eccentrico e ambizioso personaggio riunisce gli emarginati della città (donna barbuta, nano, gigante; ma anche persone di colore o uomini tatuati – il concetto di “freak” di The Greatest Showman non è esattamente lo stesso di Tod Browning), si mette in coppia con il drammaturgo Philip Carlyle (Zac Efron) e compierà il canonico percorso di esaltazione iniziale, successo, manie di grandezza, caduta e ritorno ai sani valori di famiglia e sobrietà. Cantando e ballando, ovviamente.
Cosa funziona in The Greatest Showman
The Greatest Showman arriva in contemporanea mondiale con l’obbiettivo di fare da contro-programmazione all’invasione nerd di Star Wars e a quella animata di Coco. C’è una gran quantità di pubblico (soprattutto femminile) a cui manca un grande spettacolo cinematografico festivo. Tra commedie italiane e blockbuster a target infantile, l’offerta è più limitata del solito. Il baraccone di Jackman vuole inserirsi in mezzo e portare in sala quel pubblico a cui degli Ultimi Jedi importa poco. Le carte in regola per piacere un po’ a tutti ce le ha.
The Greatest Showman è talmente ovvio e lineare da sembrare un film concepito negli anni ’30 e messo in scena oggi. La La Land, punto di confronto automatico, non c’entra nulla, e i richiami a Luhrman stanno solo nella locandina. Siamo più dalle parti del musical pop-teatrale di Rob Marshall, se possibile ancora più basico: canzoni semplici, numeri musicali puliti, grandi sentimenti e molta, molta cautela. Il personaggio di Jackman è sorridente, estroso e sempre simpatico. L’amore trionfa, i pregiudizi vengono sconfitti, i personaggi si abbracciano al tramonto inquadrati in sihluette: il lavoro di Gracey è sicuramente il film di ambientazione circense più patinato mai concepito. C’è persino un tentativo di vendere il protagonista come eroe dell’emancipazione: i presunti freak gli sono grati, e salgono fieri sul palco per mettersi in mostra come fenomeni da baraccone, in nome di una sorta di rivalsa personale alla X-Factor (morale piuttosto ambigua, diciamo così).
Gli americani parlano di crowd pleaser: se quest’anno ce n’è uno, è The Greatest Showman.
Perché non vedere The Greatest Showman
Fatto rivelatorio: fino al giorno delle anteprime stampa, la durata annunciata di The Greatest Showman erano i classici 140 minuti dei blockbuster in costume. La versione presentata e distribuita, ne dura poco più di 105. Pur senza comunicati ufficiali, è facile intuire cosa sia successo: un calcolo in extremis ha ritenuto necessario tagliare via mezzora al film e mandarne nelle sale una versione stringata.
Simpatia per il prodotto a parte, The Greatest Showman sconta allora ognuno di questi ultimi sette anni passati a cambiare script, personaggi e creativi coinvolti. Il film arrivato alla prova pubblico è tagliato, rimaneggiato, confuso e tenuto insieme a malapena.
I personaggi di The Greatest Showman vengono presentati, vanno sullo sfondo, e chiudono la loro sottotrama in capo a tre scene. Lo svolgimento procede per balzi (nella love story tra Efron e Zendaya mancano letteralmente delle sequenze), Jackman inizia e finisce la sua storia con la stessa faccia e pure gli stessi vestiti. Se c’è una progressione narrativa, non la si sente. Unica costanza sono i numeri musicali. Che però sono troppi, lunghissimi e, dettaglio piuttosto clamoroso, incredibilmente poveri: le canzoni si dimenticano sul momento, le coreografie sono poco più che balletti. E la messa in scena in generale, per un kolossal d’epoca, manca di grandiosità. Persino il Circo sembra solo un piccolo set.
The Greatest Showman è un lavoro d’altri tempi per concezione e messa in scena. Furbissimo nel cercare riferimenti al sentire contemporaneo, natalizio nel senso più americano del termine, star vehicle per quel Hugh Jackman che da anni spinge e mette la faccia per il ruolo del titolo. Ma sconta una lavorazione turbolenta, e il risultato è sorprendentemente sciatto e raffazzonato. Rischio flop economico altissimo.